Alessio Pizzech, un regista sempre un po' fuori dagli schemi. Lo abbiamo incontrato durante le prove del suo ultimo spettacolo.
Platea del Teatro Del Monaco di Treviso, dove si stanno montando le luci de La traviata di Verdi: siamo seduti accanto al regista Alessio Pizzech, nato a Livorno nel 1972, talento precoce e vero giramondo. Uomo di spettacolo completo, dal 1991 si è dedicato alla regia di prosa e dal 1997 alla lirica, portando sinora in scena 150 spettacoli, uno più uno meno.
Caro Alessio, hai appena consegnato la regia de Il seduttore, che dopo le prime recite al San Babila di Milano è ora in tournée. Come hai visto la figura di Eugenio, il donnaiolo seriale al centro del lavoro di Diego Fabbri?
E' una figura complessa ed articolata, minata nelle sue certezze dall'esperienza traumatica di aver perso un figlio. Un'assenza così totale, che lo porta a radicalizzare i suoi rapporti sentimentali e familiari, a rompere tutte le convenzioni sull'amore; ed imboccare una strada che porta all'autodistruzione, come capita a Don Giovanni.
Ma, secondo te, Eugenio cerca solo la gratificazione del sesso, od è alla ricerca di una qualche sicurezza?
Cerca sicurezza, perché comprende che non c'è un'unica persona che possa abbracciare tutta la gamma dei sentimenti e delle affettività. Non può investire su di un solo soggetto, ha bisogno di più amanti per scoprire e riversare su esse la molteplicità delle declinazioni dell'amore. E riempie il vuoto per la morte del figlio con un “pieno” senza senso che lo condurrà all'annullamento.
Da sempre alterni i teatri di prosa con quelli d'opera. Dove ti trovi più a tuo agio?
Mi trovo bene in entrambi, non potrei rinunciare né all'uno né all'altro, e non riesco a pensarli come dimensioni separate. Hanno tantissimi punti di contatto, ed uno si arricchisce dell'altro; e puoi trovare grande libertà d'azione in entrambi.
La mia vita sta ormai in questo sbilanciamento: la parola per me è musica, e la musica ha valore di parola. Ho capito il valore dei silenzi nella parola ascoltando i silenzi della musica. E la musica mi ha insegnato che c'è anche un solfeggio nella parola detta, che anche un attore deve saper rispettare, senza prendersi un tempo in più o uno in meno. E c'è un solfeggio persino nelle emozioni, e nel modo di renderle in scena.
Tu ti sei fatto una certa fama di provocatore, vedi il Rigoletto di Bologna. Quanto è giustificata questa tua fama di enfant terribile?
A dire il vero, io non mi sento tale. Ho un grande rispetto della materia, e non ho mai pensato di “violare” il libretto di un'opera. Però mi pongo sempre il problema di come raccontarla oggi, e sento il bisogno di scoprirvi segni incisivi che corrispondano alla nostra sensibilità.
Il mio problema è sempre quello di creare dialogo fra tradizione e contemporaneità. E suscitare occasioni di riflessione allontanando lo spettatore da una visione “gastronomica” dell'opera - definizione di Kurt Weill, cioè la “mangio” qui così com'è - bensì suscitando in esso un atteggiamento critico nei confronti di quanto gli viene proposto. E' questa la funzione di noi registi, specie nella prosa. Nella lirica, quest'idea è ancora un po' nuova...
Ti trovo impegnato con La traviata di Verdi. Come vedi quest'opera?
La colloco in un contesto assolutamente attinente al libretto. Ma anche se l'ambientazione, la forma esterna, sono quelle del 1850, in realtà le dinamiche dei personaggi, la modalità dello stare in scena, i segni che vengono proposti sono fortemente attualizzati. Questa Traviata è una sfida: lo spazio scenografico l'ho voluto fortemente simbolico, fortemente metaforico, e la forma è apparentemente tradizionale, quasi filologica – gli abiti sono di quegli anni - però quanto accade in scena è molto vicino a noi.
Fra poco andrai al Regio di Torino per un nuovissimo Orfeo di Monteverdi. Come lo metterai in scena?
Come un viaggio, come una allegoria dell'esistenza. Si sentirà il rapporto con la Natura, il passaggio delle stagioni: dopo la primavera dell'inizio, gli Inferi non saranno caldi, ma freddi come l'inverno. Credo sempre meno al realismo nell'opera. Il mio Orfeo vedrà una forte contaminazione tra contemporaneità, simbolo, metafora.
Sempre, quando metto in scena un'opera, mi domando cosa può pensarne un giovane d'oggi, e come posso avvicinarlo ed interessarlo ad essa, senza tuttavia portarla verso il suo immaginario. Quello di un diciottenne è ahimé spesso povero di poesia, indifferente alle metafore, raramente esiste educazione alla bellezza. Il mio desiderio è d'essere contemporaneo, ma con un occhio alla grande tradizione teatrale italiana, che della bellezza – una bellezza che suscita qualcosa dentro, che aiuta a sognare – non può fare a meno.