Intervista a Andrea Scanzi: in scena a teatro con lo spettacolo ‘Salvimaio’, il giornalista de Il Fatto Quotidiano sviscera la sua esperienza teatrale (e non solo) e svela il suo pensiero sulla situazione del teatro
Andrea Scanzi, stimato giornalista de Il Fatto Quotidiano e volto televisivo di Otto e mezzo e Carta Bianca, dal 2011 calca il palcoscenico in veste di autore e attore. Dopo il successo dello spettacolo Renzusconi, indaga e si domanda, con il nuovo Salvimaio (Date tournée), cosa è questa ‘Terza Repubblica’ e cosa in realtà sta succedendo in Italia. (a fondo pagina il video integrale dell'intervista)
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‘Salvimaio’ nasce come libro e successivamente spettacolo teatrale. Ci sono conferme, pentimenti o nuove consapevolezze?
Salvimaio è uno spettacolo molto stimolante almeno per me perché viene dopo Renzusconi, uno show in cui tutto sommato era chiara la situazione politica. C’erano sicuramente i cattivi, almeno ai miei occhi, cioè un accrocchio terribile tra Partito Democratico Renziano e Forza Italia Berlusconiana e poi forse, non dico c’erano i buoni ma c’era un’ipotesi. Salvimaio è uno spettacolo itinerante, cambia di data in data e cerca di decrittare una situazione politica complicatissima dove non si sa minimamente chi siano le persone di cui fidarsi e chi siano le persone che ci deludono profondamente. In questo senso è più complicato però è anche più interessante da raccontare e da scrivere.
Considerando la modalità con la quale il pubblico vive il momento politico, Salvimaio quanto pensa possa rimanere uno spaccato di intrattenimento ironico e quanto una ‘lezione’ politica?
Io credo che Salvimaio sia un condensato di cento minuti di ironia, perché si ride soprattutto nella prima parte o questa almeno è la mia intenzione, ci si arrabbia ma alla fine la sensazione dominante che pervade lo spettatore ma pure il sottoscritto, è quella dello smarrimento. Secondo me è uno spettacolo che amplifica e racconta appieno questo senso di incapacità di appartenere che caratterizza l’italiano di oggi. Non sappiamo più chi sia la persona meritevole della nostra fiducia, della nostra stima. Siamo ormai persone che nella maggioranza dei casi dicono ‘io’ e non dicono ‘noi’ non perché siamo narcisi, o non soltanto per quello, ma perché non riusciamo a dire noi. Non riusciamo a sognare insieme al sogno degli altri e credo che la cifra di questo spettacolo sia proprio questa: le persone vengono a sentirmi col disperato bisogno di avere qualcuno che gli spiega quello che sta succedendo ma ancora di più hanno voglia di venire per sentirsi meno soli. Se questo accade è una bella vittoria per me!
C’è un unico posto sulla barca e solamente uno dei due potrebbe capire il suo spettacolo: chi getta in acqua, Salvini o Di Maio?
Non avrei nessun dubbio: getterei Salvini. Non credo che Matteo Salvini sia il nuovo Hitler come spesso dice la sinistra radicale ma di sicuro è un politico molto distante da me. E’ distante perché vengo da sinistra, perché ha delle posizioni anche sul tema della famiglia, dell’integrazione, dell’eutanasia profondamente retrograde e bigotte. Incarna un’idea di destra che per me non c’entra molto col fascismo ma è una destra nuova, magari pure peggiore però una destra diversa che non c’entra niente con me.
E Di Maio?
E’ un ragazzo di 32 anni che incarna un movimento molto in difficoltà in questa fase, non tanto numerica ma proprio di coscienza. E’ come se fosse un vascello che non sa fino in fondo da che parte stare, che si compiace di stare al potere, che indovina alcune battaglie ma ne sbaglia altre e cerca di tenere la barra dritta. A volte lo condivido, altre no. Non è esattamente il mio eroe politico, i miei eroi politici hanno i nomi di Pertini, Berlinguer, devo andare molto indietro nel tempo ma non è sicuramente neanche un politico che detesto.
Oggi il teatro sembra sempre più relegato a chi può permetterselo o a chi ha accesso a finanziamenti pubblici. Come dovrebbe intervenire la politica per migliorare le attività dei teatri e delle compagnie?
Io credo che se c’è un limite nel governo attuale, ma purtroppo anche in quelli precedenti, è che hanno sempre messo all'ultimo posto tutto ciò che era cultura. E quando pensi alla cultura, credo che il teatro arrivasse e arrivi ancora dopo l'ultimo posto. Non avverto nessuna urgenza di aiutare il teatro, né dalla Lega, né dal Movimento 5 Stelle, e poco in quel che resta del Partito Democratico, ma soprattutto avverto anche un altro grande rischio, che è lo stesso rischio che riguarda anche la discografia e il cartaceo: le nuove generazioni fatalmente non sono pronte, non sono abituate, non sono educate ad andare a teatro perché sono convinte che la fruibilità artistica sia qualcosa di gratuito, sono convinte che basti andare su Youtube per scoprire un artista. Il contatto diretto è un mito che hanno i quarantenni come me, che hanno quelli ancora più grandi che ancora si ricordano l’emozione straordinaria che provavano quando avevano davanti Gassman, Gaber o Dario Fo, queste enormità assolute.
Perché, come reagisce oggi un ventenne?
Un ventenne se gli racconti queste cose probabilmente non lo avverte e non sente il bisogno di spendere venti, trenta o quaranta euro per andare a sentire un artista o per vedere uno spettacolo teatrale. Tutto questo fa si che qualsiasi forza politica, qualsiasi governo se vuole aiutare il teatro deve rimboccarsi le maniche e ricominciare praticamente da capo, a partire proprio dalla cultura e dall'insegnamento al teatro per le nuove generazioni. Io tutto questo onestamente non lo vedo.
Parlare di politica a teatro, non credo conceda dei privilegi. Cosa la spinge a farlo?
Vengo da spettacoli in cui deliberatamente non ne parlavo ed era anche curioso per il pubblico perché a livello televisivo sono noto anzitutto per quello. Basta pensare alla mia presenza a Otto e mezzo e Carta Bianca. Invece venivano a vedermi a teatro e mi sentivano parlare di Gaber, di De Andrè, di Ivan Graziani, di Falcone, Borsellino ma la politica propriamente detta non c’era. Poi l’anno scorso il successo di Renzusconi mi ha spinto a trasformare quel libro in uno spettacolo. Il successo, il calore, l’appartenenza che ho percepito sono stati tali e anche un senso ingombrante e preoccupante per me di responsabilizzazione, perché le persone vengono a vedermi perché si fidano di me, tutto questo ha fatto si che a me stesso ho dovuto ammettere una cosa: c’è una parte di pubblico che aveva bisogno che io raccontassi la politica anche a teatro.
Da giornalista che vive il palco attivamente, cosa sentirebbe di ‘denunciare’?
Frequentando e avendo la fortuna di calcare molti palcoscenici italiani, di solito quello che ho voglia di denunciare lo denuncio. Quindi denuncio tutte le malefatte che avverto nel giornalismo, nella politica, nell'informazione, destra e sinistra, perché il teatro dona una grande libertà. Se c’è una cosa che posso dire anche con un certo dolore è che da quando faccio teatro, dal 2011, continuo a vedere in larga parte dei teatri italiani una grande opposizione a quegli artisti, a quei giornalisti o a quelle figure in qualche modo note che non rientrano nei loro canoni politici.
Strano che lo dica lei…
Paradossale che lo dica io, vengo da sinistra ma se avessi dovuto lavorare appoggiandomi al 90% dei teatri che sono ancora in mano più o meno al Partito Democratico avrei fatto si e no due o tre date l’anno. Per fortuna o riempio i teatri o mi chiamano perché convengo anche a loro, ma è un meccanismo mentale che richiede intelligenza e non tutti ce l’hanno tra questi grandi direttori di teatro, teorici e creatori di cultura, oppure non mi chiamano proprio perché mi ritengono infedele, perché magari scrivo sul Fatto Quotidiano, perché sono un giustizialista o un populista, sovranista, grillino e tutte le altre sciocchezze. A loro basterebbe ascoltarmi mentre faccio Salvimaio e scoprirebbero che non sono sovranista, tantomeno grillino. Il tutto presuppone una grande intelligenza e una volontà di andare oltre le etichette e visto purtroppo che il teatro italiano si affida alle etichette, ci sono dei teatri dove non andrò mai e circuiti teatrali che non mi hanno mai considerato.
A teatro, oggi più che mai, si sente la necessità di ascoltare un grido sociale oltre che intrattenere e emozionare. Qual è il suo?
Io faccio teatro per alcuni motivi, alcuni poco nobili ossia perché mi diverte, ho bisogno del contatto diretto e perché mi stupisce ancora oggi l’idea che ci siano delle persone che vengano a sentirmi, addirittura pagano per sentirmi. C’è sicuramente una componente privata, personale anche edonistica e narcisistica. Sono sicuro che il motivo principale per cui faccio teatro è l’insegnamento che ho avuto e che ho cercato di avere da Giorgio Gaber. Gaber nei suoi spettacoli insisteva con l’esigenza dell’intenzione del volo, diceva che le persone potevano essere dei gabbiani, magari ipotetici, però se non avevano quell'urgenza nell'intenzione del volo non potevano andare da nessuna parte. E’ quello slancio verso l’utopia che ti porta a essere veramente libero. E secondo me il teatro, per quanto in difficoltà, in crisi, spesso anacronistico, quando tutto funziona ha ancora questa magia che ti permette di avere l’intenzione del volo tua e del pubblico e ti permette anche di far scattare quella cosa meravigliosa che si chiama appartenenza. Quindi se qualcuno viene e alla fine si sente parte di un gruppo, si sente meno solo e addirittura si è spinto leggermente in avanti grazie al mio spettacolo, è il regalo più bello che mi possa fare la vita.
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