Nei pressi del teatro Mercadante di Napoli, dove è in scena con la “Filumena Marturano” diretta da Rosi, abbiamo incontrato Carmine Borrino, giovanissima promessa del teatro italiano che negli ultimi anni si è fatto apprezzare non solo come attore ma anche come drammaturgo acuto e sensibile, portando in scena, con la regia di Roberto Azzurro, “Antica Babilonia”, monologo intenso e coinvolgente che affronta, partendo dalla strage di Nassyria, la tragica ed anfibola realtà delle missioni di pace in territori di guerra.
Carmine, tu sei davvero giovanissimo, come e quando ti sei accostato al teatro?
La scintilla iniziale si è accesa che ero davvero un bambino, infatti a dieci anni mi chiamarono a fare Peppiniello in una straordinaria edizione di “Miseria e nobiltà” diretta da Giovanni Lombardo Radice che aveva come protagonisti Carlo Giuffrè ed Angela Pagano.
Per la precisione fu mio fratello, più grande di me, che era già in compagnia, a catapultarmi in questa avventura e così, a soli dieci anni, mi si aprì un mondo, un mondo che non ho più abbandonato e che ho continuato a seguire anche mentre mi sono diplomato in chitarra al Conservatorio e poi all’Accademia di Belle Arti.
La prima posa cinematografica, invece, l’ho fatta a quindici anni, in un bellissimo film di Antonio Capuano, “Pianese Nunzio”.
Successivamente, avevo perfino deciso di smettere ma poi sono stato chiamato da Mattone per fare “Scugnizzi” ed allora ho capito che dovevo continuare questa avventura.
In questi anni, però, ho studiato moltissimo, ho cercato di costruirmi con attenzione ed impegno una dimensione teatrale per così dire “personale” ed ho scoperto il valore di un teatro di bottega, di un teatro popolare che ha le proprie radici nella tradizione della sceneggiata.
Invece,come definiresti il tuo rapporto con la scrittura e con Napoli ?
Ho capito che voglio scrivere fin quando avrò qualcosa da dire, senza mai perdere di vista il fatto che sono un meridionale del XXI sec.
Io sono cresciuto nelle periferie, è quest’elemento non va trascurato poiché in periferia i tempi sono dilatati, perché le distanze da coprire per relazionarsi all’altro sono più ampie e quindi si ha più tempo per riflettere sulle cose.
Io, per esempio, sono convinto di essere stato salvato dal teatro, dalla bellezza, dai miei professori, dall’arte, altrimenti sarei certamente andato lontano da Napoli, come hanno fatto tanti miei amici che lavorano al nord, sarei andato via da Napoli perché Napoli mortifica i propri figli e stento a comprendere come molti miei coetanei possano accettare condizioni di vita e di lavoro al limite dell’umanamente sopportabile pur di non emigrare.
Tu sei l’autore e l’interprete di un monologo, “Antica Babilonia”, che, messo in scena con la regia del bravissimo Roberto Azzurro, ti ha dato grandi riconoscimenti di critica e di pubblico, tra cui il premio Vigata 2007. Quale idea ha mosso la realizzazione di questo progetto?
L’idea di “Antica Babilonia” si definiva mentre aveva luogo l’ultimo conflitto in Iraq, mentre i media ci continuavano a riempire di bollettini, statistiche o pronostici bellici di cui a me non interessava nulla; avvertivo con fastidio il RISIKO televisivo che si giocava, per esempio, nei salotti televisivi di Vespa & comp.
Io, piuttosto, mi chiedevo cosa poteva spingere un mio coetaneo ad andare in missione in quei paesi e, soprattutto, come viveva un’esperienza così drammatica, come la vivevano i suoi genitori, i suoi amici, la sua ragazza, su quali presupposti potevano condividere o favorire una scelta così devastante? Insomma, mi interessava affrontare la dimensione domestica dello scontro bellico, le motivazioni intime e concrete che potevano spingere un ragazzo ad arruolarsi in missione. Volevo calare la guerra nella dimensione intima e personale degli affetti, non mi andava di ascoltare solo statistiche che riducevano cinicamente il soldato in un numero percentuale.
Dunque ti sentiresti di dichiarare che “Antica Babilonia” narra la storia e la morte di un mercenario dei nostri tempi?
Mi è capitato, durante la presentazione del monologo all’interno di una rassegna teatrale di grande interesse, che un tale abbia appunto detto che il mio spettacolo metteva in scena la storia di un mercenario ed era chiaro che, in questa affermazione, c’era una certa cifra di disprezzo. Io, però, credo che non si possa liquidare così semplicemente l’argomento, prima di disprezzare chi decide di fare il mercenario, bisogna considerare quali alternative vengano offerte ai nostri ragazzi. Lo Stato dovrebbe consentire ai propri cittadini di scegliere consapevolmente, ma troppo spesso è la povertà ad avere il sopravvento e a scegliere.
In “Antica Babilonia” racconto proprio la diffusa precarietà esistenziale che è una piaga della nostra società e la cosa più raccapricciante è che pian piano la gente si è come abituata a questa condizione, ormai la subisce in maniera sempre più passiva come un dato di fatto, una circostanza ordinaria e addirittura inevitabile e non, piuttosto, come il fallimento dell’intero sistema economico-politico di un paese civile.
Hai avuto problemi politici durante la messinscena di questo testo?
Certo qualcuno ne ho avuto, anche se voglio ribadire che il mio testo non può definirsi né di destra né di sinistra. Io credo che fare un teatro politico non voglia dire schierarsi da una parte piuttosto che da un’altra, quanto fare un teatro che metta in moto le coscienze. Certo qualche militarista ottuso ha trovato fazioso il mio testo, però questi sono discorsi piccoli, casomai gli dava fastidio che io mostrassi un soldato in tutta la sua umanità, nel suo essere un ragazzo che, catapultato in una situazione di cui non aveva assolutamente idea, palesa una grande e comprensibile paura. A me non interessava assolutamente muovere una critica all’arma, io volevo indagare le motivazioni che spingono i ragazzi ad arruolarsi in queste missioni di pace in territori di guerra, ragazzi spinti dalla miseria e dalla promessa di poter guadagnare qualcosa con cui soddisfare un legittimo desiderio di serenità economica.
Come ti è venuta l’idea, poi, di scrivere una canzone dedicata a Roberto Saviano?
Con la canzone “A Roberto” , interpretta da Antonio Rocco e Marianna Corrado, ho vinto la passata edizione del Festival di Piedigrotta. La canzone nasce dalla personale persuasione che, sebbene Roberto abbia sollevato lo “scandalo” della camorra con il suo romanzo, non c’era bisogno del suo sacrificio per sapere delle varie lotte dei clan, degli Schiavone o dei Casalesi e parlo di suo sacrificio perché, purtroppo, quello che paga il prezzo più alto, rinunciando da uomo libero alla sua libertà, è proprio Roberto Saviano.
Hai scritto altri testi per il teatro?
Ho scritto un altro paio di testi per il teatro, di cui uno, “Nun è peccato” , dovrebbe andarei n scena tra pochi mesi ed avere come interpreti Roberto Azzurro e Lalla Esposito.
Si tratta di lavori che hanno le loro scaturigini nel mio studio sulla canzone e sulla sceneggiata napoletana. Io credo che la sceneggiata racchiuda in sé dei nuclei tradizionali di grande potenza drammaturgica e catartica, d’altronde nella sceneggiata si possono rintracciare diversi archetipi classici della messinscena. Io penso sia scandaloso che Napoli abbia voluto dimenticare questa porzione così vitale della sua storia e della sua cultura popolare, infatti se la sceneggiata si è totalmente degradata, questo è accaduto perché è andata in mano a degli incompetenti e gli stessi autori storici della sceneggiata furono sostanzialmente miopi e non seppero guardare al teatro internazionale e ai grandi fermenti drammaturgici che ebbero luogo, ad esempio, negli anni ’70 e che avrebbero potuto rigenerare e dare nuova linfa al genere. Pochi registi hanno provato, negli ultimi anni, a recuperare e a rianimare la sceneggiata e, tra questi, credo si debbano ricordare due grandi maestri come Leo De Berardinis e Carlo Cerciello.
Ovviamente, quando dico che si dovrebbe recuperare la tradizione della sceneggiata, non mi riferisco ad un recupero filologico del genere, che sarebbe certamente fuori luogo e privo di senso, quanto ad una sorta di rivitalizzazione e rigenerazione che dovrebbe contemplare, senza dubbio, una fertile e sincretica contaminazione con altri generi o forme di spettacolo.
Veniamo adesso al tuo impegno attuale, cioè quello che ti vede tra gli interpreti di un testo classico e paradigmatico del teatro di Eduardo, cioè la “Filumena Marturano” che, dopo aver girato diverse grandi città d’Italia, è arrivata proprio in questi giorni a Napoli, sulle tavole del Teatro Mercadante. Come ti sei trovato coinvolto in questo progetto che ha la regia di Rosi e, come protagonista femminile, un’icona dello spettacolo partenopeo come Lina Sastri?
Questa occasione me la sono un po’ cercata, infatti l’anno scorso, mentre ero in scena all’Eliseo di Roma con “Il mondo deve sapere”, con Teresa Saponangelo e la regia di Emmer, invitai i responsabili della produzione allo spettacolo e poi mi proposi per fare un provino con Rosi ed è andata bene. Sono molto contento di fare questa esperienza, perché Eduardo è sempre stato un grande punto di riferimento per me, sia come attore che come drammaturgo. La sua forza, secondo me, sta nel fatto che non si è mai perso in elucubrazioni, conservando sempre una grande attenzione per il pubblico, per le esigenze del pubblico, per l’immaginazione del pubblico.
Come è stata accolta questa edizione della “Filumena” dal pubblico e dalla critica?
Il pubblico e la critica hanno accolto benissimo la “Filumena Marturano” dovunque, a Napoli, invece, stanno dimostrando maggiore freddezza, allora dobbiamo pensare o che Napoli abbia ragione e nelle altre città non capiscano nulla o, evidentemente, il contrario…
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