Ci siamo incontrati con Coco Leonardi, classe 1934, alla vigilia del debutto del suo teatro “Quinte emotive”.
Ha sempre detto: “L’unica cosa che m’interessa è di fare teatro”. E così è stato, malgrado tutte le traversie e le difficoltà alle quali la vita possa sottoporre un teatrante. Forse anche di più. Per continuare a seguire quel sogno, che alla fine si è rivelato il suo destino, ha dovuto affrontare la dittatura militare argentina, girare mezza Europa e ora, persino nella campagna dell’iglesiente, dove si è trasferito da Milano una decina d’anni fa, non ha abbandonato il suo amore. Partendo da zero, da solo, è riuscito a far crescere una compagnia e a creare un teatro.
Ci siamo incontrati con Coco Leonardi, classe 1934, nato a Santa Fe in Argentina, nella sua casa immersa nella macchia mediterranea vicino a Buggerru alla vigilia del debutto del suo teatro “Quinte emotive”, per ora il primo e l’unico a Iglesias.
Partiamo da lontano. Ci racconti la storia del suo arrivo in Italia.
«Prima di tutto, sono un esiliato politico. Come ben si sa, dall’1973 all’84 l’Argentina è stata governata da una giunta militare che ha causato enormi disastri. Noi siamo stati fortunati perché erano solo gli inizi di quella che si è rivelata poi una sanguinosa repressione».
Quando dice “noi”, intende La Comuna Baires?
«Esattamente. Insieme a Renzo Casali, mancato due anni fa, e altri amici sono stato uno dei fondatori del gruppo. Eravamo giovani, avevamo tanta voglia di fare teatro e, soprattutto, di sperimentare. Lavoravamo seguendo il metodo Stanislavskij e le tecniche di "allenamento" di Jerzy Grotowski... Ho avuto la grande fortuna di studiare con Lee Strasberg durante le sue residenze a Buenos Aires. Per me è stato un grande maestro. Basandosi sul metodo ideato dal regista russo, egli aveva sviluppato un sistema di insegnamento che mi ha aperto gli orizzonti teatrali e non solo, mi ha fatto crescere. E’ dal suo modo di essere, molto riservato, che ho imparato che un attore deve mettere in primo piano il suo lavoro è non i suoi fatti personali».
Il gruppo si è imposto all’attenzione internazionale con lo spettacolo “Water Closet”, che denunciava la tortura.
«Era il ’73, all’inizio della dittatura. Notavamo che nel paese accadevano cose strane che non ci piacevano. Cominciavano a girare delle voci sulle torture, sulle sparizioni, ma ancora restava il posto per il dubbio. Quando invece la faccenda divenne palese, ci siamo detti: “Noi, come intellettuali, non possiamo restarne fuori”. E abbiamo creato uno spettacolo-denuncia, di un impatto molto forte, di poche parole, ma molto fisico e l’abbiamo presentato in un piccolo teatro costruito con le nostre mani in un frequentatissimo quartiere di Buenos Aires chiamato San Telmo».
E vi l’hanno lasciato fare?
«Stranamente sì. Forse perché volevano capire meglio che direzione volevamo intraprendere. Caso vuole – ed è stata la nostra fortuna e la nostra sfortuna nello stesso tempo - che siamo stati selezionati come miglior spettacolo argentino per partecipare al festival internazionale di Nancy. La nostra permanenza in Francia sarebbe stata spesata dagli organizzatori dell’evento, ma non il viaggio, che normalmente viene pagato dallo stato. Perché per ogni paese la partecipazione a questo evento è una questione d’orgoglio nazionale. E siccome a noi questa possibilità è stata rifiutata, abbiamo capito che “loro” non volevano far sapere al mondo quel che accadeva in Argentina. Ma noi eravamo molto testardi e soprattutto non potevamo perdere l’occasione di andare in Europa e di farci conoscere. Siamo usciti sulle strade per vendere le nostre riviste, raccontando perché avevamo bisogno di soldi e chiedendo la collaborazione della gente. Anche gli artisti come Mercedes Sosa e Edmondo Rivero hanno recitato e cantato per noi. Con molta fatica siamo riusciti a mettere insieme il denaro per il viaggio in nave per tredici persone. Lo spettacolo ha avuto un successo che noi stessi non ci aspettavamo. C’era gente che piangeva, che veniva a trovarci dopo la rappresentazione per confortarci…»
E quanto tempo siete rimasti in Europa?
«Siamo venuti per una settimana e siamo rimasti otto mesi facendo spettacoli un po’ dovunque: in Italia, in Francia, in Germania… Questo ci ha permesso di acquisire una fama internazionale. Mentre “loro” erano sempre più adirati, al punto tale che quando siamo tornati hanno mandato i militari per distruggere tutto quello che faceva parte della nostra comunità: tre case, due teatri, una sala cinematografica. Quindi ci hanno detto - in un modo molto gentile - che avevamo un mese di tempo per scomparire, altrimenti avrebbero fatto lo stesso con noi. E di nuovo siamo usciti sulle strade, questa volta, però, con delle motivazioni molto più forti. E abbiamo trovato di nuovo artisti e cantanti che ci hanno dato una mano. Alla fine siamo riusciti a trovare il denaro per l’intera comunità di quaranta persone e siamo scappati. Con l’autorizzazione a scappare e con la promessa di non tornare mai più».
Il vostro sbarco in Italia da che cosa è stato determinato?
«E’ stato il paese che ci ha accolti come profughi. Siamo riusciti quasi subito a trovare una sistemazione vicino a Padova, nella Cascina Monselice, dove ci siamo messi a fare un po’ gli attori, un po’ i contadini. All’inizio andava bene, ma, col passare del tempo, lo stato di incertezza in cui ci siamo ritrovati ha cominciato a provocare in molti di noi un forte senso di disagio. Sempre più spesso si sentivano rimpianti, tristezza, nostalgia. Era evidente che, mentre in tournee eravamo considerati rivoluzionari latinoamericani, la vita fissa in campagna aveva cominciato a farci perdere la nostra carica. Il gruppo cominciò a sgretolarsi: c’era chi voleva continuare a fare teatro, chi non ne vedeva molto il senso preferendo occuparsi di politica o di qualcos’altro. Io ho tenuto duro per molto tempo e, alla fine, ho deciso di andarmene».
Ha vinto l’amore per il teatro?
«La politica in senso stretto non mi ha mai interessato. L’unica cosa che da sempre ho voluto fare è il teatro: tradizionale, sperimentale, di ricerca... Magari con dei contenuti che aiutassero a fare politica. Quindi avevo deciso di andare a Parigi rispondendo all’invito della mia carissima amica Iris Scaccheri - grande danzatrice che in Argentina veniva definita la nuova Isadora Duncan - a fare uno spettacolo insieme. E l’abbiamo fatto, anche se per me lavorare nella capitale francese si è rivelato difficilissimo, sia per l’ambiente stesso sia perché non parlavo benissimo il francese. Nello stesso periodo ho cominciato a dare le lezioni di teatro e conosciuto delle persone di Lugano che si sono molto interessate al mio metodo didattico e mi hanno invitato in Svizzera per aprire una scuola».
Per molti il Suo nome è legato alla scuola Gente di Teatro di Milano…
«Sono rimasto a Lugano per un po’ di tempo, insegnando e curando la regia de “La notte degli Assassini”. Quindi sono stato chiamato per coordinare il lavoro del centro Teatrattivo di Bergamo e, alla fine, mi sono trasferito a Milano dal mio grande amico Raul Manso, caposcuola di “Gente di Teatro”, con il quale nel ’93 abbiamo messo in scena “Nanaqui”, uno spettacolo-omaggio ad Antonin Artaud che io stesso interpretavo. L’abbiamo portato anche in Argentina, perché era già possibile tornarci. A Milano ho aperto anche una mia scuola, come sempre formando i gruppi, perché per me il teatro è un’arte soprattutto collettiva. Abbiamo fatto diversi spettacoli per molti dei quali ho scritto i testi. A volte lo faccio, sia per facilitare agli allievi l’apprendimento del mestiere, sia perche per me è un modo per dire quello che ho dentro».
E in Sardegna qual buon vento l’ha portata?
«Sono venuto qua in vacanza per diversi anni e mi sono innamorato di questo posto che trovo davvero magico. Per giunta mia moglie è sarda e una decina d’anni fa ha ereditato un terreno sul quale, con molta fatica, siamo riusciti a costruire questa casa. A un certo punto, valutando bene tutti i pro e i contro, abbiamo deciso di trasferirci qua. All’inizio non è stato facile. Eravamo entrambi senza lavoro e ogni settimana dovevamo tornare a Milano: io per fare i provini e tenere i seminari, mia moglie per visitare i suoi pazienti. Poi i nostri ritorni si sono fatti sempre più rari».
Anche perché persino in un paesino come Fluminimaggiore, di appena 3000 abitanti, lei è riuscito a mettere insieme un laboratorio teatrale…
«Sì. E il fatto più sorprendente è stato quello che a rispondere al mio invito non sono stati i ragazzini, come uno s’aspetterebbe, ma le persone adulte. La fascia d’età con la quale, fra l’altro, io preferisco lavorare. Ma ho dovuto affrontare molte battaglie durante i quattro anni di lavoro a Flumini. Sono una persona paziente, ma nello stesso tempo dura. Perché tengo molto alla disciplina indispensabile nell’insegnamento di quello che io chiamo “il metodo”. Alla fine le mie fatiche in qualche modo sono state ripagate e sono riuscito a salvare la mia dignità di regista. I due spettacoli che abbiamo preparato erano di discreta qualità. Ma io non ce la facevo più. E me ne sono andato. In quel momento sono stato contattato dall’ARCI di Iglesias per organizzare un corso di teatro per i ragazzi. Tuttavia quasi tutti i giovani ai quali era indirizzato il corso si sono trattenuti poco. Al contrario, nei cinquantenni, senza alcun’esperienza di recitazione - che anche questa volta tra gli iscritti rappresentavano la maggioranza - ho intravvisto subito molto interesse e molta voglia di imparare. Infatti, il lavoro del gruppo che ho formato qualche anno fa ora comincia a dare i suoi frutti e si avvicina quasi a un livello professionale. Per ora abbiamo nel cartellone tre spettacoli scritti da me : “Sorella cara”, “Le regole del gioco” e “Le memorie di un tavolo”. Per la prossima stagione proviamo a mettere in scena “Aspettando il treno”. E’ la prima volta che mi cimento in un testo comico e divertente».
In generale, qual è la difficoltà maggiore nell’insegnare il teatro?
«Prima di tutto è la difficoltà di concentrarsi. Credo che sia una malattia tipicamente italiana. Chiedere a un italiano di raccogliersi è difficilissimo. La dispersione mi fa perdere molte energie.
Nella mia pratica ho spesso sentito dire che il pubblico viene molto coinvolto dal mio modo di fare l’attore, che mi esprimo in un modo non recitativo, che attribuisco poca importanza alla pronuncia. Forse questa è la via più efficace che perfezionare la dizione. Non a caso in Italia le scuole teatrali si chiamano di recitazione, mentre per me dovrebbero chiamarsi laboratori d’avvicinamento all’arte dell’attore. E’ diverso l’approccio di dover metterti in gioco o di studiare il testo a memoria. Non ne vedo il piacere. Per me il piacere consiste nella ricerca, nella possibilità di scoprire il personaggio attraverso le sue traversie psicologiche. Andare sul palco per me significa portarlo con me, non recitarlo. E questo mi da la vita ed è ciò che cerco di insegnare ai miei allievi».
In sostanza, lei parla dei fondamentali del metodo Stanislavskij?
«Per me è importantissimo che l’attore impari a lavorare e non semplicemente a declamare il testo. Che impari a scoprire. Nel processo didattico cerco di dare ai miei studenti un’impronta, quindi invito loro a prepararmi un’improvvisazione. E da li che parte il lavoro vero e proprio».
Nei suoi allievi Lei vede i “prosecutori” delle sue idee?
«Più che “prosecutori”, mi piacerebbe vederli come artisti alla pari».
Lei ha fatto sia l’attore che il regista. Un regista deve per forza essere anche un buon attore?
«Non credo. A me piace di più fare l’attore. Ho imparato a fare il regista e ad amare questo mestiere. Senza dubbio, il regista dev’essere un profondo osservatore della vita e della natura umana per aiutare ad attore ad immedesimarsi nel personaggio».
Riesce a sentire subito se un attore “stona”?
«Capisco subito quando un attore crede in quello che fa e quando no. Quando non crede - recita».
Cosa capita più spesso: che l’attore sul palco interpreti se stesso oppure che nel quotidiano continui a interpretare i suoi personaggi?
«Non mi stanco mai di ripetere ai miei corsisti che bisogna stare attenti con il metodo e soprattutto non bisogna mai farsi ossessionare dal personaggio al punto tale da perdere il contatto con la realtà. Come è successo con Vivien Leigh dopo aver interpretato Blanche Dubois ne “Un tram che si chiamava Desiderio”. Si era talmente immedesimata nel suo personaggio che non è più riuscita a uscirne fuori. Per fortuna, sono casi rari».
Si ritiene un conservatore?
«Non so se sono un conservatore o meno. So solo che sono stato un privilegiato di aver avuto due grandi maestri: Strasberg da una parte e Grotowsky dall’altra dai quali ho appreso il metodo che cerco di seguire fedelmente nel mio lavoro».
Ci sono delle innovazioni degli ultimi tempi che le piacciono o la disturbano?
«Non sopporto quei ragazzi che smaniano all’idea di fare delle innovazioni senza conoscere davvero cos’è il teatro. Prima di cercare di creare un linguaggio nuovo uno deve studiare, trovare se stesso, la sua forza espressiva e solo dopo provare a condividerlo con gli altri. Pina Bausch era sì un’innovatrice. Era geniale perché ha incorporato nel suo, di per sé impeccabile, linguaggio della danza degli elementi nettamente teatrali che erano interessantissimi. Del resto, trovo poca l’innovazione nella ricerca teatrale degli ultimi anni».
Ha dei suoi registi preferiti?
«Prima di tutto Peter Brook. Mi dispiace molto di non aver avuto il modo, almeno per ora, di assistere a uno dei suoi seminari. Tra gli italiani, Marco Bagliani. Ecco, lui è sicuramente un innovatore, visto che è riuscito a creare addirittura un nuovo genere teatrale, quello della narrazione. Abbiamo fatto diversi spettacoli insieme e lo considero un grande regista. Mi piace anche Elio De Capitani il cui nome è molto legato al teatro dell’Elfo di Milano».
Quale è stato il suo lavoro più interessante?
«Come attore, “Nanaqui“ con Raul Manso. Io interpretavo un vecchio servo di scena appassionato di teatro che provava un’ammirazione folle per Artaud fino a quando questa sua ossessione non finiva col trasformarsi in una vera e propria follia».
Ha fatto anche del cinema…
«Non molto. “La terza stella” con Ale e Franz e “Nirvana” con Salvatores. E’ stata comunque una bellissima esperienza».
C’è un testo che vorrebbe interpretare o mettere in scena?
«Prima di concludere la mia carriera vorrei mettere in scena “La morte del commesso viaggiatore” di Arthur Miller. E’ un testo tradizionale, ma che presenta un personaggio in tutta la sua complessità e racchiude un vastissimo e interessantissimo campo da esplorare».
C’è differenza tra il teatro argentino e quello italiano?
«Si basano su due scuole diverse. In Argentina il metodo Stanislavskij è molto più conosciuto e, di conseguenza, più applicato. Forse perché sentivamo molto l’influenza dell’Actor’s Studio e di Strasberg in particolare. Tuttavia, anche qui i giovani cominciano a conoscerlo un po’ di più. In Italia prevale l’altro modo di fare teatro, quello forse più intuitivo. E’ diverso però dal farlo basandosi su uno studio, con consapevolezza. Inoltre trovo gli attori italiani più “recitativi”, un fatto che, secondo me, indebolisce il potere espressivo del teatro».
Dopo moltissimi anni vissuti in Italia, si sente di più un italiano o un argentino?
«Non sento più il desiderio di tornare in Argentina. Anche perché, in un certo senso, il popolo argentino mi ha tradito. Provo ancora un grande rancore. Perché dopo tutte le battaglie che abbiamo condotto in quegli anni … non ne voglio parlare. Tuttavia dentro mi sento ancora un argentino: per il mio modo di esprimermi, la mia energia, la mia voglia di comunicare. Quando mi sento di cantare, canto il tango. Ho perso, purtroppo, la famosa tradizione del mate. Ma la nostalgia no, non la sento».