Intervista a Corrado d'Elia. E’ uno dei “cattivi” delle tragedie del Bardo, qui riscritto con un ritmo contemporaneo. Ma la smania di potere non è cambiata, dice d’Elia.
Un nuovo capitolo del ciclo shakespeariano che dal 2014 Corrado d'Elia porta a Manifatture Teatrali Milanesi: Riccardo III. Uno scenario da videogame, con un Riccardo assetato di potere che dirige, complotta, seduce e uccide, saltando di livello in livello, fino al game over finale. In scena dal 20 febbraio al 4 marzo al Teatro Litta di Milano.
Abbiamo intervistato Corrado d’Elia, deus ex machina dello spettacolo che, insieme alla sua storica Compagnia, promette di deliziarci anche questa volta.
Un Riccardo III formato zip: come si racchiude questa lunghissima tragedia in soli 90 minuti?
Effettivamente, se dovessimo metterla in scena come l’ha scritta lui dovrebbe durare quasi quattro ore: un tempo per noi inusuale e insopportabile. Shakespeare aveva una sensibilità diversa rispetto al tempo. Ed è proprio il tempo a essere il vero metro del teatro: quello che deve fare un regista è gestire i concetti e adeguarsi al tempo.
Essere contemporanei è proprio questo: raccontare davvero, adeguandosi a un ritmo della contemporaneità, dell’immagine e del suono. Io non voglio fare allestimenti museali, ma riscritture sceniche: bisogna tagliare ciò che sentiamo come inutile, ripetitivo e noioso. La riscrittura è originalità e quindi ben vengano i tagli.
Shakespeare è stato ingiusto con Riccardo, che nella realtà storica non era così infame e alla fine regnò solo due anni. Come lo descriveresti a chi non lo conosce?
E’ vero che Shakespeare racconta un Riccardo III che nella vita è stato diverso, ma a noi non interessa l’approccio storico: quello lo lasciamo ai professori.
L’approccio è puntualmente teatrale, riguarda l’azione e non la verità storica dei personaggi. A noi piace che Riccardo sia questo personaggio che fa della deformità fisica una deformità intenzionale e mentale. Questo è esaltante, è pura teatralità.
Tempo di elezioni, tempo di smania di potere: facendo un raffronto tra l’epoca che descrive Shakespeare e la nostra, qual è la nostra tragedia rispetto a quella di Riccardo?
Lì eravamo in un tempo in cui c’era la pace dopo molti anni di guerra. Era uno Shakespeare che scriveva di feste, dove si danzava e si coltivava l’amore…noi viviamo da decenni in pace ma viviamo in un tempo di non-senso ideologico, politico, d’impegno, dove non sappiamo chi votare.
Questa campagna elettorale, per esempio, è stata senza programmi, zeppa di fake-news: ai tempi c’era invece un’esaltazione post bellica dove ricominciava la vita, con un’energia grandissima. Tanto che Riccardo dice: io che sono deforme, incompiuto, che faccio? E da qui infatti che nasce la sua tragedia.
Potremmo riassumere i due tempi diversi in “Bellezza e Bruttezza”?
Beh, una volta coltivavamo la bellezza e pensavamo che la bellezza potesse influenzarci: facevamo città meravigliose, opere d’arte e chi aveva i soldi finanziava l’arte. Riempivamo i nostri occhi di bellezza. Ora abbiamo finti giardini spennacchiati, viviamo in casermoni… siamo abituati alla bruttezza, andiamo veloci per non vederla. Ma in fondo la cerchiamo e andiamo veloci proprio per cercarla. E se la trovassimo sono certo che ci fermeremmo.
Cosa direbbe oggi Riccardo al posto della celeberrima frase “Un cavallo! Un cavallo! Il mio regno per un cavallo!”?
Credo che direbbe “Un bit-coin, un bit-coin il mio regno per un bit-coin! Tutto per un bit-coin!” (ride, ndr).
Cosa manca oggi al teatro per diventare parte della crescita culturale dei giovani?
Quello che manca oggi è la politica culturale. A scuola non imparano teatro, non studiano musica e nemmeno l’arte.
Il vero problema è la formazione: non hanno né basi né informazioni. Viviamo in un tempo che dimostra la sua povertà: se non formiamo un pubblico e non gli diamo gli strumenti per capire il teatro, è come far vedere a uno i quadri di Van Gogh senza che possa capire il perché dipingesse in quel modo… quella persona potrà dire solo: “Mmm, non male, bel quadro”. Tutto qui.
Il problema è spiegare, ma è la scuola - e quindi l’ente pubblico - che deve darci la chiave per comprendere.