Sembra una verità evidente, ma oggi è davvero troppo poco praticata: Simone Cristicchi, direttore del festival Narrastorie, lo spiega a Teatro.it.
Simone Cristicchi ci svela parte dei retroscena dello spettacolo Le Marocchinate, un backstage utile e profondo che porta a comprenderlo meglio e più a fondo. Il progetto artistico reca le firme dello stesso Cristicchi e di Ariele Vincenti, che è anche il solo interprete sul palco.
Ed aggiunge una matura lezione da artista: l’esigenza e l’importanza di costruire almeno un varco per i giovani talentuosi, quei ragazzi che avrebbero tante potenzialità da esprimere sulla scena teatrale, se solo venisse concessa loro un’opportunità.
Non sono molte le fonti storiografiche che si occupano degli eventi oggi conosciuti come “Marocchinate”: quali materiali hanno costituito il canovaccio storico dello spettacolo?
Il materiale è stato reperito attraverso testimonianze raccolte proprio in Ciociaria, nonché tramite l’ascolto di documentari come 'La Storia siamo noi' di Minoli ed altre fonti recuperate da Internet. Però con Ariele Vincenti abbiamo preferito comunque il racconto orale, di persone che avevano avuto in famiglia dei casi come quelli.
Non date voce ad una donna, bensì ad Angelino, il marito di una “marocchinata”. Come mai questa scelta?
Perché, oltre ad essere il racconto di queste violenze è anche il racconto di una specie di catarsi, di questo dolore che viene poi esorcizzato dall’amore, perché quest’uomo decide di sposare una di queste donne, strappandola via da quello che fu un secondo oltraggio; molte comunità della Ciociaria, difatti, vedevano in queste donne delle appestate. Quindi esse furono vittime di una doppia violenza, da una parte quella fisica, dell’abuso, e dall’altra quella più psicologica ad opera di queste comunità, una sorta di ostracismo nei confronti di chi aveva subito queste violenze. La figura dell’uomo ci sembrava importante, quindi, perché lui non vede in questa donna una persona da mettere da parte. Anzi, attraverso questo amore la donna guarirà, e alla fine, troverà la cura della sua malattia.
Questa volta non reciti in prima persona, affidando ad Ariele Vincenti il ruolo di attore; a cosa è dovuta questa decisione concorde? Non avresti potuto magari affiancarti a lui, e creare un duo sulla scena?
Ho conosciuto Ariele Vincenti perché l’ho visto recitare in alcune commedie e spettacoli teatrali, e avevo notato la sua bravura. Io semplicemente l’ho spinto, l’ho stimolato a fare qualcosa di suo, un monologo appunto, e questo è stato il suo primo esperimento da monologhista. Quindi mi sono limitato a pungolarlo, vuoi perché avevo già altri impegni di spettacoli teatrali in corso, vuoi perché avevo voglia di stimolare un’altra persona a mettersi alla prova con una disciplina così difficile. Oltretutto, lui sul palco ha dimostrato di saper tenere lo spettacolo da solo, quindi non aveva alcun bisogno di essere affiancato da me né da nessun altro. È una sorta di biglietto da visita come attore, il monologhista.
Hai dichiarato di voler attirare maggiormente i giovani ai tuoi spettacoli; di progettare una serie di “Attentati teatrali”, ossia incursioni nelle piazze per sorprendere i ragazzi, inchiodandone l’attenzione per la strada. Cosa può avvicinare un pubblico non abituato alla performance in teatro?
Secondo me bisognerebbe innanzitutto utilizzare dei giovani talenti – ecco, uno di questi è proprio Ariele – una serie di giovani narratori che siano più vicini alle generazioni degli studenti, ad esempio, perché già esteticamente gli sono più vicino. In più, occorre stimolarli attraverso narrazioni che non siano classiche, da teatro classico. Mi viene in mente Roberto Mercadini, un giovane narratore romagnolo che ha una grande forza nel comunicare con leggerezza la storia, per esempio.
La cosa che trovo vincente, quindi, è andare incontro a loro, piuttosto che invogliare loro ad andare a teatro, perché, come ho dichiarato spesso, anche a me è successo di essere deportato a teatro, ai tempi della scuola, e di aver subito degli spettacoli che mi hanno allontanato dal teatro stesso. E la stessa cosa succede oggi. È incredibile vedere come in certi festival allestiscano spettacoli teatrali, gratuiti al pubblico, quindi ad ingresso libero, ed i giovani comunque continuino ad avere una sorta di mancanza di fiducia nel teatro. Lo trovano una cosa pesante, una cosa per un’èlite che non contempla loro né i loro interessi. La sfida, sia all’Aquila sia nel mio festival che si chiama Narrastorie, è invece quella di fargli rivedere un po’ quest’idea.
Chiudiamo con una curiosità: qual è il libro sul comodino di Simone Cristicchi?
In questo momento sto leggendo un libro di un mio amico sacerdote, Don Luigi Verdi, dal titolo "La realtà sa di pane". È un sacerdote sui generis, molto seguito, ed è fondatore della Fraternità di Romena, una realtà che si trova vicino Arezzo. È un luogo – come lo chiamano loro, un’isola di terra – dove le persone che stanno attraversando una crisi possono trovare un abbraccio, un consiglio, un conforto. Oltre ad essere un sacerdote che parla in dialetto toscano, perciò particolarmente vicino alla gente, è anche un poeta e uno scultore, quindi una personalità molto vasta e variegata, e questo libro raccoglie un po’ la summa del suo pensiero.
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