La difficoltà di essere compagnia teatrale, il rapporto con la realtà bresciana, il loro maestro Leo de Berardinis, scomparso esattamente dieci anni fa: Teatro.it incontra i due attori e registi fondatori della compagnia Le Belle bandiere.
La compagnia teatrale Le Belle Bandiere nasce nel 1993, su progetto e direzione artistica di Elena Bucci e Marco Sgrosso, che hanno fatto parte del nucleo storico del Teatro di Leo di Leo de Berardinis dal 1985 al 2001. Dal 2005 hanno stretto un rapporto di collaborazione con il Centro Teatrale Bresciano con cui hanno prodotto molti spettacoli, tra cui L’anima buona del Sezuan di Bertolt Brecht che debutta in questi giorni al Teatro Sociale di Brescia (QUI le info, date e biglietti del debutto).
Recentemente Elena Bucci ha vinto il Premio Hystrio - Anct 2017, il Premio Ubu 2016 come migliore attrice, il Premio Eleonora Duse 2016.
Siete tra i pochissimi attori che hanno scelto di costituirsi come compagnia: Le Belle bandiere. Cosa significa essere compagnia teatrale nell'attuale realtà italiana?
Elena Bucci: Una fatica immensa, che inizia con l’assommare necessariamente su di sé tanti lavori in uno spazio temporale sempre più ristretto. Questa non vuole essere naturalmente una lamentela ma un invito alla riflessione, perché è anche vero che molte delle collaborazioni più interessanti con le strutture importanti come i teatri stabili avvengono proprio con delle forme di compagnia, cioè persone che coltivano da tempo insieme un linguaggio che si basa sul modo di stare in scena, sul modo di lavorare, di intendere la luce, il suono, la voce. Tutto questo è un patrimonio enorme della cultura italiana, e va salvaguardato, perché il rischio è che sulle spalle della compagnia ricadano tali e tanti aspetti del lavoro che pian piano tendono a schiacciarla. Nell’800 il grande capocomico Luigi Bellotti Bon diceva “Attenzione a caricare questo povero mulo che è la compagnia, perché poi alla fine non ce la fa più”. Questa problematica si è andata aggravando negli ultimi due secoli. Il teatro non può essere uniformato ad altre attività o ad altre arti: ha il suo linguaggio, i suoi tempi, i suoi modi ed ha bisogno di quelli.
Marco Sgrosso: Essere una compagnia teatrale, con tutte le difficoltà che questo comporta, è il senso stesso del teatro, nel senso che esiste un teatro di collaborazioni, di compagnie che nascono e si sciolgono, molto importante anche per noi che, quando possiamo, collaboriamo in altre esperienze. Ma il fatto di mantenere un nucleo è il senso stesso del teatro, perché il teatro è una cosa che nasce, matura e fiorisce nel tempo, attraverso la conoscenza reciproca. È un’arte che si muove in senso contrario a quelli che sono attualmente i tempi delle produzioni. In teatro la regola “presto e subito” è sbagliata a priori, perché il teatro è un mestiere artigianale, vive del tramandare, vive dello scoprire nel passato il germe del futuro. L’importante è che una compagnia -e noi questo cerchiamo di farlo- sia una compagnia aperta alle collaborazioni, perché bisogna nutrire la creatività continuamente.
Elena Bucci: Quando poi si stabiliscono dei linguaggi propri, una forma di ricerca propria, si capiscono molto meglio anche le istanze altrui. Affrontare tutti i processi del fare teatro, dopo che ci si è incontrati, è come trovarsi tra fratelli, in una sorta di famiglia in cui però ogni fratello sviluppa la sua voce. Questo approccio è una ricchezza immensa: il teatro non è la lotta di uno contro l’altro, come si può essere indotti a pensare in un mondo che si basa sulla competizione. E questa è la cosa molto importante che secondo me dobbiamo continuare a difendere. Più teatro vivo c’è, più ricchezza c’è e questa è una rifrazione artistica del nostro mondo, che si può ripercuotere anche negli altri aspetti della società a partire da quello economico. Secondo me questo è il grande compito che ci aspetta per gli anni futuri.
Il vostro ultimo spettacolo si intitolava Ottocento: perché dedicarlo ad un intero secolo, e secondo quale chiave interpretativa?
Marco Sgrosso: Tuffarsi in questo secolo dell’ottocento, che è un secolo ricchissimo, sia dal punto di vista emotivo che dal punto di vista del pensiero -infatti è un secolo in cui ci sono state importantissime invenzioni- è stato un po’ come godere di una grande ricchezza e allo stesso tempo avere la sensazione di una grande perdita. Nel nostro lavoro di ricerca siamo stati sepolti da una marea di libri, ricchi di spunti ed allo stesso tempo ci siamo trovati con un tempo tiranno che ci impediva di capire cosa scegliere tra le tante cose cui abbiamo aderito con passione e interesse. E poi la preoccupazione era quella di collegare tra di loro queste idee per evitare che fosse soltanto una carrellata superficiale, anche se non si deve necessariamente ricercare una sottotrama nello spettacolo, perché quelli che noi affrontiamo sono tanti autori, di tutto il secolo, di varie zone geografiche. Con un certo rammarico, abbiamo comunque dovuto sacrificare autori anche molto importanti che ci hanno accompagnato nel nostro percorso, e che a volte non sono stati inseriti per un problema di tempo o di collegamento. Questo è anche uno spettacolo contenitore di altri spettacoli possibili, perché affrontando alcune opere letterarie, teatrali, di pensiero dell’ottocento, ed ognuna di queste potrebbe diventare uno spettacolo a sé.
Elena Bucci: Ottocento per noi è stato un esperimento su una nuova forma di drammaturgia. Il lavoro che abbiamo cercato di fare è anche un lavoro sulla memoria. L’800 è il secolo che ha inventato il modo di fermare l’immagine attraverso la fotografia, per cui tutti avevano la possibilità di essere immortalati senza ricorrere al dipinto. Allo stesso tempo però, il tempo ha in parte cancellato queste immagini, per cui è come se il nostro lavoro fosse una sorta di dagherrotipo. Il caso ha lasciato alcune cose e ne ha cancellate altre, che però rimangono, sbiadite, in controluce. Il desiderio di rievocare quelle parti cancellate è assimilabile al recupero della memoria, una memoria che si crede di possedere ma che non si possiede affatto. Rimangono dei nomi a volte, ma dietro a quei nomi ci sono mondi che dimentichiamo. Per cui lo spettacolo vuole essere un tributo al teatro anche come strumento di memoria, non polverosa ma vivida e vitale. Una memoria non solo legata al mondo dell’arte e della letteratura, ma anche una memoria dei contadini, di un sapere che si diffonde, delle lotte politiche, in un continuo flusso emotivo.
In questi giorni debutta al Centro Teatrale Bresciano il vostro nuovo spettacolo, "L’anima buona del Sezuan" di Bertolt Brecht. Che rapporto si è instaurato con questa istituzione con cui collaborate da quasi 15 anni?
Elena Bucci: Il rapporto con Brescia è un rapporto vero, un rapporto di intuizione reciproca in cui c’è sempre un grande sostegno ed un grande rispetto per il percorso creativo. Noi siamo molto felici di trovare ogni volta uno spirito del teatro così profondo e così vicino ad una forma di Interrogazione di sé e del periodo in cui viviamo.
Marco Sgrosso: Il rapporto con Brescia è un rapporto che ha attraversato diverse direzioni artistiche, e si è consolidato non solo con l’istituzione, ma con tutte le persone che nel corso di questi anni si sono succedute e continua ad essere un rapporto anche di amicizia, perché si è trovata un’intesa felice; intesa che si è creata anche con il pubblico bresciano.
Elena Bucci: Questo soprattutto perché abbiamo difeso insieme tutti quanti un’idea di teatro che è fatto del lavoro di tutti, del rispetto di tutti. Un lavoro fatto con cura che nasce da un’idea di condivisione, anche nell'affrontare i rischi. Con Brescia tutto questo è possibile.
Il 18 settembre sono trascorsi 10 anni dalla morte di Leo de Berardinis, il vostro maestro. Figura teatrale scomoda, che sembra essere stata dimenticata, ed alla quale avete dedicato il vostro nuovo spettacolo.
Elena Bucci: Tutte le volte che abbiamo la possibilità noi parliamo di Leo e devo dire che oggi ci sono molti ragazzi che vengono a chiedere di lui, questo vuol dire che la sua eredità sopravvive. C’è un archivio di Leo che è stato riaperto lo scorso anno, anche se purtroppo esistono pochi documenti video perché lui non li amava, ma gli scritti rimangono di una vividezza che andrebbe riscoperta.
Marco Sgrosso: Leo ci accompagna sempre e anche se noi ci siamo staccati a un certo punto da lui, come è giusto staccarsi da un maestro e intraprendere la propria strada, Leo oggi mi manca moltissimo. La cosa che mi dispiace riguardo la sua memoria è che penso che Leo non sia opportunamente ricordato perché non ha mai creato delle alleanze. Nonostante i suoi difetti Leo era veramente autentico e non cercava di creare squadre, come invece oggi accade continuamente nel teatro, anche, da parte di persone che si sono formate con Leo, che creano delle strutture chiuse. Leo non era così, per questo forse non è ricordato, perché non aveva la sua cerchia ristretta. Però Leo resta e resta la sua lezione.
Elena Bucci: Leo in realtà ha creato iniziative molto importanti, perché, ad esempio, se non fosse stato per lui alcune leggi che hanno tutelato i teatri di ricerca oggi non esisterebbero. Quindi si è speso tantissimo anche in questo ed è una cosa che ci fa sempre riflettere. Secondo me esistono dei libri non scritti che bisognerebbe scrivere. Ci sono personaggi che hanno molti libri intorno a loro e personaggi che non hanno libri e, che aspettano di essere scritti. Forse sarebbe il caso di scriverli.
Elena, negli ultimi due anni sono arrivati i premi Duse, Ubu e Hystrio. Un punto d’arrivo o di partenza?
Elena Bucci: C’è una frase di Van Gogh che dice: “Attenzione, ci sono delle lucciole molto luminose in Brasile e tutte le signore le vogliono, per infilarle nei gli spilloni e mettersele tra i capelli. Così è per gli artisti quando cominciano ad avere un po’ di riconoscimenti.”
Per INFO, DATE, BIGLIETTI: Scheda dello spettacolo "L'anima buona di Sezuan".