Nell'intensa tournée estiva dell'Accademia degli Artefatti, “Io, Fiordipisello” di Tim Crouch e “Nascita di una nazione” di Mark Ravenhill sono giunti in replica a L’Aquila, ospiti del Teatro Stabile d’Innovazione L’Uovo per il festival “I Cantieri dell’immaginario”.
Per l'occasione ho fatto un’interessante chiacchierata col regista e direttore artistico Fabrizio Arcuri che ha parlato delle sue pièces, dell’attuale situazione cultuale a Roma, della nuova edizione del suo festival “Short theatre” e di alcune tendenze attuali del teatro, tra cui la produzione di spettacoli-evento legati alla comunità in cui sono replicati con la collaborazione di artisti locali, come il suo “Nollywood”, e Antonio Tagliarini che invece invita persone comuni a partecipare al suo prossimo progetto.
A L’Aquila replicate “Io, Fiordipisello” e “Nascita di una nazione”, spettacoli che portate in tournée già da tempo…
“Nascita di una nazione” sono 7 anni che lo facciamo e fa parte di un ciclo epico di Mark Ravenhill che è un autore inglese di una quarantacinquina d’anni sostanzialmente e ha scritto 17 spettacoli in un ciclo epico (e sono tutti collegati uno all’altro) che noi abbiamo messo in scena 7 anni fa e che poi abbiamo portato in tournée negli anni. Però poi a un certo poi abbiamo cominciato a portare in tournée solamente “Birth of a Nation”, cioè “Nascita di una nazione”, perché è quello che in qualche maniera ha una completa autonomia da tutti gli altri progetti e che ha un valore politico e sociale molto forte e che dunque ci corrisponde ancora.
Mentre invece l’altro, che si chiama “Io, Fiordipisello” è piuttosto recente nel senso che è un anno che lo facciamo e fa parte di un altro ciclo di 5 lavori che sono dedicati alla drammaturgia di Shakespeare. E Tim Crouch sostanzialmente ha riscritto 5 pezzi ispirati ad altrettanti lavori, appunto, di William Shakespeare dove però da voce ad un personaggio minore che è come se osservasse la vicenda da dentro e quindi ne apre, diciamo così, dei risvolti che non sempre sono a tutti evidenti.
Il Teatro Stabile d’Innovazione L’Uovo ha co-prodotto uno dei pezzi del progetto “Io, Shakespeare”: “Io, Calibano”…
“Io, Calibano” debutterà in modo, diciamo così, completo e definitivo a fine settembre al Festival Contemporanea di Prato. La nostra idea è quella sempre di trovare, diciamo così, dei luoghi… Per esempio due di questi pezzi, “Io, Fiordipisello” e “Io, Cinna”, hanno debuttato alla Biennale di Venezia, malgrado i co-produttori fossero altri. “Io, Banquo” è stato co-prodotto dal Teatro della Tosse e ha debuttato però a Trend, rassegna di drammaturgia britannica qui a Roma […]
E’ un po’ una scelta che abbiamo fatto quella di dare a tutti i pezzi il massimo rilievo possibile e farli debuttare, diciamo così, in contesti anche “altri” rispetto a quelli che sono i produttori di partenza.
E poi ci sarebbe l’ultimo pezzo che è quello di Malvolio…
Che però ancora …
Che aria si respira a Roma in cui tu dirigi il festival “Short theatre”? Il Teatro Eliseo pare sia in imminente chiusura, il Teatro Valle è sempre occupato e l’Angelo Mai pure. Adesso al Teatro di Roma c’è la nuova direzione di Calbi e solo di recente è stato nominato il nuovo assessore alla cultura. Com’è la situazione?
A Roma, in realtà, si respira un’aria di grandissima confusione. Non capisco perché nessuno c’ha più voglia di approfondire e di comprendere veramente quello che succede e tutti hanno solo voglia, come dire?, di costruire casi, di montare questioni, di costruire beghe... Secondo me, Roma è semplicemente la Capitale e dunque il luogo dove certe questioni succedono prima e succedono in modo più evidente.
Non ci sono più soldi, questa è la realtà! E quindi di conseguenza poi succede che ci sono tutta una serie di cose che in qualche maniera accadono inevitabilmente a cascata.
[…] Voglio dire: il tanto contestato bando dell’”Estate Romana”, del nuovo assessore, Barca, etc etc, poi in realtà si risolve nel fatto che invece di esserci € 2 milioni e 600 mila ce n’erano 1 milione e 300 mila! Per cui parecchie delle strutture che avevano goduto di benefici e di economie sono state, come dire? insomma, tagliate. Però non è una questione dell’assessore. E’ una questione del fatto che non ci sono i soldi. Dopo che ci sono state tutte queste polemiche, in realtà, il Comune di Roma, non so bene come e in che maniera, ha tirato fuori € 600 mila ulteriori e immediatamente si è placata la questione. […]
L’Eliseo evidentemente avrà in questi anni subito dei tagli molto forti al punto da diventare moroso nei confronti dei locatari. Quindi la questione è meramente economica. E credo che fra un po’ quello che sta succedendo qui, lentamente, poi a cascata succederà anche negli altri posti.
[…] Roma da qualunque punto di vista tu la vai a prendere diventa un problema: la prendi dal punto di vista dei Beni Culturali e c’è una quantità di cose a Roma che andrebbero restaurate, … E quindi ci vorrebbero soldi etc etc. Se vai a prenderla dal punto di vista dei teatri, comunque, c’abbiamo 5 teatri stabili privati, un teatro stabile, … insomma anche lì è normale, no?, che è tutto moltiplicato per mille. Dunque è chiaro che è una situazione difficile, una situazione grave. Però credo che la lettura più corretta sia quella che è una conseguenza, diciamo così, di quello che sta succedendo in termini generali […] è inutile che ci lamentiamo dicendo che Marino non sta facendo niente […] rispetto a quello che avevano fatto i precedenti (Alemanno, etc etc) che avevano fatto veramente dei grandi disastri!, è evidente che se non arrivava il Decreto Salva-Roma, Roma era commissariata. […]
Cioè: a Roma in questo momento c’è una grandissima confusione e questo non fa bene mai in assoluto.
Il claim di quest’anno del festival “Short Theatre” è “La rivoluzione delle parole”. Perché? Che cosa ci dobbiamo aspettare?
Guarda, lo scorso anno in qualche maniera avevamo chiamato il festival “La democrazia della felicità” come se in fondo il festival fosse una sorta di piccolo Stato che decide un po’ quali sono le proprie regole e le proprie leggi. E quindi avevamo individuato un territorio, che sono gli spazi dove naturalmente viene svolto il festival, e dunque avevamo poi stabilito anche delle regole. E quindi gli spettacoli in qualche maniera erano un po’ stati scelti declinando le possibilità di regole di uno spazio dove vige la “Democrazia della felicità”.
Quest’anno, invece, abbiamo pensato appunto che visto che lo spazio ha delle regole poi evidentemente questo spazio deve avere anche un linguaggio e quindi ci siamo chiesti “Quale è il linguaggio di uno spazio che ha quelle determinate regole?”
E dunque abbiamo rivolto l’attenzione sulla parola: e sulla capacità rivoluzionaria che ha la parola e sulle capacità che ha il linguaggio di rivoluzionare il pensiero, sostanzialmente.
Quindi quest’anno tutti gli spettacoli che abbiamo scelto hanno a che vedere con la possibilità che il linguaggio, come dire?, sovverta in qualche maniera le regole e intervenga proprio sulla capacità di produzione di pensiero. Di pensiero politico, naturalmente. Ma “politico” in senso ampio, non partitivo, naturalmente.
Recentemente a Milano c’è stato un Festival della regia e in un convegno a tema si sosteneva che la regia italiana sta morendo. Tu cosa ne pensi?
Sono stato anche invitato, sia a questo convegno che è stato fatto a Roma che all’altro che è stato fatto a Milano. Sostanzialmente penso che sia morto un certo modo di fare regia, ma perché sta morendo un certo tipo di teatro che è quello di tradizione, che è quello unicamente di repertorio, quello dove di fatto dalla platea non si parla più alla società e perché la costruzione dello spettacolo, i temi legati allo spettacolo, come dire?, non riescono più a parlare alla società che gli è di fronte.
Penso più quello.
Penso che sia più un certo tipo di teatro, che è quello che si chiamava “teatro di regia” sostanzialmente, che stia mostrando un po’ il fianco, insomma. A fronte del fatto che esiste tutto un nuovo teatro invece che tenta di ricucire un rapporto con la società e tenta di ricostruire proprio un tessuto comune e che appunto poi non essendo, diciamo così, costruito all’interno degli Stabili ha delle modalità che sono diverse, che sono un pochino più orizzontali, sono verticistiche.
Non che non esista la regia, ma è chiaro che la costruzione degli spettacoli poi segue un iter diverso.
Tanto è vero che la forma veicola il contenuto e anche il modo con cui dopo costruisci lo spettacolo in qualche maniera rispecchia anche quello che poi questo spettacolo andrà a dire, sostanzialmente.
A proposito di questo cambiamento: di recente hai fatto “Nollywood”, uno spettacolo-laboratorio in cui era richiesta la partecipazione di gente esterna alla compagnia. Secondo te questa può essere una prospettiva per il futuro o è solo dettato dal momento? Ho visto che anche Antonio Tagliarini ha un progetto simile “Every-body. Una domanda d’amore”...
Però Antonio Tagliarini fa una cosa completamente diversa, perché è una cosa più legata a una idea pasoliniana, nel senso che lui non vuole professionisti e devono essere rigorosamente delle persone che non devono avere niente a che vedere con il teatro e con la danza. E costruisce un percorso, diciamo così, di “comunità”.
E dunque, appunto, sono due cose molto diverse perché lui chiede a delle persone normali di partecipare all’elaborazione di un percorso per restituire un senso di comunità. Mentre invece appunto “Nollywood” chiede la collaborazione a professionisti che sono, che ne so?, le bande di paese, le cheerleaders… per costruire un kolossal low-budget. Quindi sono due derive completamente opposte, se vuoi.
Sono spettacoli-evento.
No, diciamo, quello di Antonio Tagliarini è un progetto… Di sicuro quello che hanno in comune è che ogni volta che questi progetti si fanno richiedono la collaborazione di persone che non necessariamente sono sempre le stesse. E quindi va un po’ ricostruito il cast che da una parte vuoi che siano persone normali, dall’altra parte vuoi che siano collaborazioni di professionisti. Ma è chiaro che devono essere professionisti del posto, nel senso che noi per esempio questo “Nollywood” lo abbiamo fatto a India [teatro di Roma, ndr] per 20 giorni durante “Perdutamente” ed è chiaro che le collaborazioni che avevamo erano le collaborazioni su Roma. Mentre adesso lo abbiamo fatto a Centrale Fies nel festival di Dro e le collaborazione che abbiamo trovato sono collaborazioni sul posto.
E’ chiaro che ogni volta che si fanno questi progetti “nei” luoghi tendono a coinvolgere la comunità “del” luogo. In un caso è una comunità di artisti, nell’altro caso una comunità di persone normali.
Io credo che quello che fa Antonio è di tentare di coinvolgere le persone in un modo più diretto e quindi quasi a ricostruire una possibilità proprio di rapporto tra il teatro e appunto la società, in fondo; di tornare a far interessare il pubblico al teatro, sostanzialmente, cercando di coinvolgerli anche in prima persona. […] magari nelle città più piccole può essere diverso, però effettivamente in grandi città come Roma, Torino, Milano, uno lavora tutto il giorno […] prima di andare a teatro e attraversare tutta la città ci pensa dieci volte. […] La questione è che se il teatro non riesce a ridiventare il luogo di condivisione di un pensiero è chiaro che ha perso perché l’intrattenimento non c’ha più la forza. Il teatro non c’ha proprio le carte per essere competitivo in termini di intrattenimento, insomma!