In una trafficata strada del centro cittadino, a Napoli, abbiamo incontrato Gea Martire, interprete teatrale e cinematografica, da diversi anni coinvolta in progetti drammaturgici estremamente interessanti come, appunto, “Della storia di G.G.”, monologo brillante ed ilare che la stessa attrice ha tratto da un racconto inedito di Maria Grazia Rispoli e che andrà in scena dal 13 al 16 gennaio all’ArtGarage di Pozzuoli e, a Napoli, il 22 e 23 gennaio alla Sala Ferrari e il 5 e 6 febbraio alla Sala Ichos.
Gea, raccontaci, innanzitutto, di cosa parla la pièce che hai deciso di interpretare.
Si tratta di una sorta di black comedy, divertente e grottesca, che tratta della vicenda singolarissima di una donna che, durante il funerale del padre, si innamora perdutamente dell’impresario delle pompe funebri. La forza del testo, secondo me, è proprio nella capacità di sorridere con amarezza e e sarcasmo di una circostanza delicata e tragica come la morte, sdrammatizzando, in un’atmosfera “macabre” e sinistra, l’imbarazzante convergenza di vita e morte che travolge la protagonista. La regia è del bravissimo Mariano Lamberti.
Dal momento che hai curato anche l’adattamento drammaturgico del testo originale, ci spieghi come è avvenuto l’incontro con questo racconto.
Maria Grazia Rispoli è un’amica scrittrice di cui ho grandissima stima e, per caso, mi fece leggere questo racconto ancora inedito: come per la protagonista quando incontra il becchino, anche per me si trattò di una vera e propria folgorazione. Sono sempre sedotta ed incuriosita dalle voci che cercano di trovare il modo di uscire, di farsi ascoltare; per esperienza, so che proprio tra queste voci si nascondono dei piccoli capolavori sconosciuti, delle gemme che meritano di essere rivelate alla luce e a me piace prestare il mio lavoro, il mio contributo umano ed artistico a questa “rivelazione”.
L’occasione, poi, per realizzare l’impresa, me la diede qualche anno Maria Elefante, illuminato assessore del mio paese d’origine, Torre Annunziata, e la cosa fu per me ancora più stimolante, infatti Torre Annunziata è sempre stato un comune abbastanza distante da urgenze di promozione artistica e culturale, direi un comune tradizionalmente avaro con chi fa arte o spettacolo, per cui fui sorpresa ed esaltata al tempo stesso dell’attenzione rivoltami.
Qual è il tuo rapporto con il genere “monologo”?
Questo è un altro motivo di stimolo che mi ha convinto a portare in scena “Della storia di G.G.”, infatti si tratta del mio primo monologo. Ho sempre nutrito molte perplessità relativamente all’opportunità di misurarmi con il monologo, avevo bisogno di imbattermi in un testo che vincesse le mie resistenze e mi persuadesse della sua potenzialità d’attrazione per lo spettatore: “Della storia di G.G.” è riuscito anche in questa impresa.
Tu sei un’attrice di teatro e di cinema, ma a quale dei due mezzi preferisci affidare la tua voce il tuo impegno?
Senza alcun dubbio, preferisco il teatro. Il teatro è più congeniale al mio modo di essere, alla mia sensibilità. Nel cinema c’è qualcosa d’indelebile che mi dà fastidio, nel teatro, d’indelebile, c’è solo il ricordo, la traccia che lasci nella memoria dello spettatore. Nel teatro c’è la vita che scorre e ti consente di apportare continuamente delle correzioni ai tuoi personaggi, ti permette di scoprire sempre nuove sfumature, di cambiare, migliorare e dare vieppiù spessore alle vite che interpreti. Il cinema, invece, è più statico, intrinsecamente privo di autenticità.
Quando è iniziato il tuo amore per il teatro?
E’ un amore nato quando ero giovanissima, nella mia cittadina, Torre Annunziata, ed è nato all’interno di uno di quei gruppi teatrali che si suole definire, a torto, amatoriali, dacché ritengo che spesso dovrebbero esser definiti gruppi di “amanti del teatro”. Qui è nata ed è cresciuta la mia passione. Invece al teatro professionistico ci sono giunta abbastanza tardi, dopo essermi laureata ed aver iniziato a lavorare come sociologa, quando avevo circa 26 anni.
Gli spettacoli che costituirono, per me, delle importantissime svolte esistenziali ed attoriali, furono una commedia di Viviani con la Compagnia “Gli Ipocriti” e la regia di Maurizio Scaparro e la prima, indimenticabile, edizione di “Pièce Noir” di Enzo Moscato, con Marisa Fabbri e la regia di Cherif.
Ultimamente, hai preso parte alla realizzazione di un film di grande successo, “Mine Vaganti” di Ferzan Ozpetek. Cosa ti ha lasciato l’incontro con questo giovane nuovo maestro del cinema internazionale?
L’incontro con Ferzan è stato meraviglioso, lui è un uomo acuto e generosissimo, gli sono davvero grata anche perché, grazie al suo bellissimo film, sto girando il mondo. Sinceramente, spero di poter lavorare nuovamente con lui perché sono convinta che sia sempre un’esperienza estremamente stimolante ed artisticamente esaltante.
Il teatro che vorresti?
Mi piacerebbe essere attrice in un teatro che sapesse riconquistare la gente, che sapesse nuovamente sedurre e innamorare gli spettatori. Questa è la missione che mi sono voluta attribuire anche con il monologo che sto portando in scena: un teatro che resista e reagisca alla crisi economica, anche al di fuori delle grandi dimensioni delle Stabili, facendo leva sulla riscoperta della parola, della storia, della cifra affabbulatoria, a prescindere dall’investimento economico, a prescindere dall’apparato di contorno.
Quali sono i progetti di Gea Martire, dopo il monologo “Della storia di G.G.”?
Ho due progetti molto interessanti in cantiere. Il primo è uno spettacolo sostenuto e finanziato dal Forum delle Culture, “Limbo Cafè”, una mia drammaturgia tratta da un racconto di Maurizio de Giovanni, uno spettacolo che sarebbe dovuto andar in scena in Cile ma, ohimé, a causa di problemi alla statica del teatro che doveva ospitarci, è stato realizzato, per il momento, solo all’interno del Teatro Trianon di Napoli.
Un altro progetto, che ha già debuttato con grande successo a Caserta a settembre, è quello di “Quattro mamme scelte a caso”, una performance molto suggestiva, organizzata da Massimiliano Palmese, con Maria Rosaria De Cicco, Antonella Romano, Imma Villa e la regia di Roberto Azzurro, un atto d’amore e d’ossequio al genio indimenticabile di Annibale Ruccello.