Gianmaria Aliverta, classe '84. Dopo gli studi di canto e di arte scenica a Milano, poi al conservatorio di Trapani e a quello di Bergamo, nel 2011 crea a Nebbiuno - un piccolo paese sulla sponda piemontese del lago Maggiore – VoceAllOpera, l’associazione per la promozione della musica lirica, con la quale inizia la sua carriera di regista e impresario operistico. Nel 2012 il teatro milanese Rosetum – storicamente legato ai nomi di Maria Callas e di Magda Olivero - gli affida la direzione della stagione lirica che si chiude il 26 maggio con “Il Trovatore”.
Con molta probabilità, al momento, è il più giovane regista d’opera in Italia.
Non è un segreto che in Italia, soprattutto tra i giovani, l’opera è catastroficamente impopolare.
«Uno dei motivi di questa triste situazione è sicuramente la quasi totale scomparsa dalle città di provincia dei teatri lirici minori. I cittadini hanno perso la loro abitudine di andare all’opera, mentre i giovani cantanti non hanno più un posto per debuttare. Certo, esistono dei circuiti che, almeno sulla carta, garantiscono loro la possibilità di esibirsi. Tuttavia, spesso si tratta di concorsi internazionali, difficili da vincere, con il repertorio non sempre adatto a tutte le tipologie di voce».
Per superare il problema tu ti sei mosso in autonomia, creando un’associazione e allestendo le opere tra i castelli e le chiese dell’Alto Vergante…
«Abbiamo creato VoceAllOpera, da un lato, per rendere l’opera più comprensibile a tutti e quindi più amata e, dall’altro, proprio per aiutare le nuove leve a farsi conoscere. Non solo i cantanti, ma anche giovani registi, musicisti, scenografi e tutto il personale che viene impegnato nella creazione di questo genere di spettacoli. Per farlo abbiamo deciso di non aspettare che il pubblico venga da noi, ma di portare le rappresentazioni in mezzo alla gente, creando allestimenti itineranti tra dimore storiche, palazzi e castelli. Rispetto al teatro tradizionale questo tipo di ambientazione sicuramente permette allo spettatore di sentirsi più partecipe verso gli avvenimenti sul palco, di viverli di più e, di conseguenza, di essere forse un po’ meno esigente nei confronti dei cantanti, soprattutto quelli giovani, che noi vogliamo aiutare».
Il Rosetum, però, è un teatro a tutti gli effetti…
«Sì, ma l’idea dei giovani è comunque quella di base. Conoscevo la storia del Rosetum che, in passato, è servito da piattaforma di lancio per diversi cantanti di fama, anche internazionale. Mi stuzzicava l’idea di ripristinare all’interno di queste mura la tradizione operistica, abbandonata da decenni. Per realizzare il progetto, che prevedeva la messa in scena di tre opere, ci sono voluti diciotto mesi di trattative. Alla fine abbiamo composto un’autorevole giuria e organizzato le audizioni conoscitive aperte, alle quali hanno partecipato più di cento giovani cantanti».
Dilettanti o professionisti?
«Erano tutte le persone che avevano studiato, sapevano cantare, ma che avevano bisogno di debuttare. E’ molto difficile che un teatro importante affidi una parte da solista a un cantante alle prime armi. Noi sì».
Come sei arrivato a fare il regista d’opera?
«Sono stati i due fattori che mi hanno spinto a farlo. Il primo è il mio amore per il canto, che ho studiato e continuo a studiare tutt’ora. Il secondo è la mia passione per organizzare. Mi sono forgiato come presidente della proloco di Nebbiuno, il paese dove sono cresciuto. Poi, stancandomi un po’ dell’attività che prevedeva l’organizzazione degli eventi di carattere prevalentemente ludico, ho voluto dedicarmi a quello che ritengo faccia parte del mio essere, cioè all’opera. Purtroppo, a parte il corso di arte scenica diretto da Alessandra Milano al conservatorio di Bergamo e qualche sporadico compito da “aiuto regista”, non ho avuto modo di fare una scuola di regia vera e propria. Cerco di studiare attentamente i lavori dei grandi maestri – come Zeffirelli o Damiano Micheletto - e di attingere alle mie esperienze e intuizioni».
Spesso i registi d’opera lirica giungono alla messinscena del teatro musicale provenendo da altri ambiti o specializzazioni dello spettacolo: regia di prosa, regia cinematografica, scenografia…
«Infatti, la figura del regista operistico viene spesso sottovalutata. In primis, perché tradizionalmente l’opera è considerata statica. E poi perché la maggior parte degli spettacoli che si vedono in giro, soprattutto nei circuiti minori o nei festival d’estate, sono le cosiddette “marchettone”, cioè le rappresentazioni fatte in giornata. In quelle il regista si limita a essere una specie di cerimoniere che dice ai cantanti quando e dove entrare e uscire e dove devono posizionarsi. E anche se il pubblico comunque applaude ed è felice, per me – che sono prima di tutto un appassionato dell’opera - è una cosa veramente triste. Mi fa molta rabbia vederla sminuita così».
Dopo il cinema hollywoodiano, l’opera resta una delle forme d’arte più costose… Voi come fate?
«La nostra è un’associazione di volontariato e di promozione sociale. Tutti i nostri cantanti e musicisti sono nostri soci e si esibiscono gratuitamente. E’ previsto soltanto un rimborso delle spese sostenute. Quelli che sono già in carriera lo fanno per impratichirsi e anche per farsi conoscere, consentendo nello stesso tempo al teatro di avere le credenziali. Per i giovani invece è una possibilità di debuttare comunque su un palco milanese. Una possibilità, non vorrei dire unica, ma sicuramente rara. Non abbiamo altre forme di finanziamento che quella del tesseramento. Quindi chiunque compri il biglietto, automaticamente diventa un nostro socio. Questo altresì ci permette di rimanere liberi dai poteri politici che potrebbero dettarci delle condizioni».
Malgrado la scelta congiunturale del repertorio, non ti si può negare un’interpretazione piuttosto personalizzata delle vecchie opere…
«Le mie regie sono pensate prima di tutto per il pubblico giovane, che non ha mai visto un’opera e non conosce il suo contenuto. Quello che voglio far capire è che, sebbene lo svolgimento delle trame si riferisca ai tempi lontani, i problemi che sollevano sono rimasti invariati rispetto ai giorni nostri. Per esempio, “La traviata” è l’attualissima storia di una cortigiana che viene denigrata dopo essere stata usata dalla società. Tuttavia se andiamo a vestirla con gli abiti del ottocento, rischiamo di intravedere solamente delle belle scene e di sentire della bella musica, perdendo tutta la tragedia descritta da Dumas. Purtroppo i melomani italiani di natura sono molto abitudinari: vogliono le stesse scene, gli stessi costumi, le stesse regie…»
Infatti, non è bello dirlo, ma, rispetto, per esempio, ai Paesi del Nord Europa, in Italia questa forma d’arte appare “leggermente” fossilizzata…
«Da noi al primo posto c'è la tradizione. Là forse c’è un po’ di eccesso. I registi nordici troppo spesso passano da una situazione di staticità e di bellezza estetica alla disarmonia toccando, a volte, la volgarità. In più, i passaggi troppo azzardati spesso per lo spettatore diventano incomprensibili. Come in tutte le cose, ci vuole un certo equilibrio. Mi viene in mente il “Romeo e Giulietta” di Damiano Micheletto che ho visto a Verona. Ambientato praticamente in una discoteca, è molto attuale e bellissimo. Quando sono uscito dallo spettacolo avevo le lacrime agli occhi».
La tua Violetta, per esempio, com’è?
«L’abbiamo pensata come un’escort dei giorni nostri e la prima scena l’abbiamo allestita nello stile di quelle “orgettine” di cui ultimamente si è parlato tanto, ma senza nulla di scandaloso. Nel corso dell’opera Violetta diventa una ragazza normalissima, in fuseaux e maglietta. Il padre invece, con la sua morale pseudo cattolica, cerca di difendere quell’onore che sta perdendo. Non lo vedo come un uomo cattivo, ma come vittima della società».
Quali sono le reazioni del pubblico?
«Generalmente positive. Qualcuno lamenta l’assenza dei costumi. Purtroppo, noleggiare dei costumi d’epoca degni di tale nome è fuori dalla nostra portata. Vestendo gli attori, invece, alla meno peggio si rischia di trasformare la rappresentazione in una specie di carnevale. Una cosa che io non voglio fare. Soprattutto perché – ed è quello che io cerco di far capire ai melomani – i movimenti, la coreografia che noi mettiamo in scena non sono quelli dell’800 - nel caso de “La traviata” - o del '500 ne “Il trovatore”, ma dei giorni nostri. Non nascondo che mi piacerebbe molto fare un’opera filologica, allestita nell’ambientazione giusta, fatta così com’è stata ideata dagli autori. Per ora non me la posso permettere».
Infatti, le scenografie e i costumi nelle opere in generale sono un capitolo a parte…
«La nostra giovane scenografa Claudia Brambilla, diplomata a Brera, riesce a creare dei veri capolavori utilizzando del materiale di ricupero. Il lampadario ne “La traviata” è fatto con le cialde del caffé Nespresso, i fiori – poiché la protagonista è la Signora delle camelie - delle lattine delle bibite, la scena della campagna è realizzata con le cassette della frutta. Riusciamo a cavarcela con poco».
La modernizzazione è un processo naturale che ha toccato tutte le forme d’arte. Tuttavia l’impressione che si viene a creare è che l’evoluzione dell’opera come genere musicale qui da noi si sia fermata a cent’anni fa. All’estero vengono scritte e rappresentate diverse opere moderne. Conosci in Italia qualche compositore che le scrive?
«Onestamente no. C’è da dire però che le tematiche di cent’anni fa sono le stesse di oggi. Basta rappresentarle in scena in forma moderna».
Sicuramente, ma a questo punto si potrebbe dire lo stesso di tutte le forme d’arte. Ragionando in questo modo, il teatro drammatico, probabilmente, si sarebbe fermato ancora sui classici greci senza mai lasciare spazio a Cechov, Beckett e chissà a chi altro ancora.
«Probabilmente è così, ma, per il momento, se dovesse scegliere quale opera andare a vedere tra una contemporanea e la solita “Traviata”, sceglierei la seconda».
Perché?
«Non lo so. Forse si tratta di un’innata resistenza alle cose sconosciute . Invece è molto più bello ed eccitante vedere, confrontare e anche criticare qualcosa che già conosci».
Con il tuo spirito creativo e l’idea di avvicinare i giovani all’opera come fai a resistere alle nuove sperimentazioni?
«Io voglio far conoscere ai giovani il nostro patrimonio operistico che ritengo sacro. Siccome, ora come ora, non mi sento altrettanto all’altezza per quel che riguarda le nuove tendenze, mi diventa difficile anche divulgarle».
E se domani un giovane compositore, tuo coetaneo, ti proponesse una sua opera. La rifiuteresti?
«Sicuramente le darei un’occhiata e, magari, la prenderei in considerazione. Tuttavia il mio problema è anche diverso. Banalmente, per coprire le spese io devo riempire il teatro. Per esempio, tra le opere più moderne mi piace molto “Gianni Schicchi” di Puccini. E’ corta, molto viva, con poche arie ferme. Oppure la bellissima “Il cappello di paglia” di Nino Rota. Ma se le mettessi in scena oggi avrei forse trenta persone in sala. “La traviata” invece me ne porta cinquecento in due serate. E’ sono già poche perché dovrei arrivare ad averne almeno settecento. Purtroppo la gente va a vedere ciò che conosce. Tra le due opere dello stesso Rossini “La Cenerentola” e “Il barbiere di Siviglia”, secondo te, quale avrà più successo in termini di presenze?»
E’ una questione di cultura?
«Penso di sì. Per poter azzardare e mettere in scena quel che voglio devo riuscire ad avere una certa sicurezza economica. Dobbiamo educare sì il pubblico, ma soprattutto fargli capire che in questo piccolo circuito si fa l’opera di un certo livello. Chi è venuto a vederci, dopo il terzo titolo ha capito che se vuole vedere “Il trovatore” con le armature o le tele dipinte ha sbagliato il teatro. Qua potrà trovare una cosa nuova, ambientata negli anni ’90 durante la guerra tra i serbi e i croati. Attenzione però: non si tratta né di uno stravolgimento di un’opera ben conosciuta, né di una forzatura, né della proiezione di quello che piace a me. Faccio una lettura molto attenta del libretto e cerco di capire quale potrebbe essere la sua ambientazione moderna. Non lo faccio, come molti registi, per le questioni politiche. E’ facile e comodo fare degli spettacoli politicizzati che attirano una parte del pubblico già per il solo fatto che parlano male dell’avversario politico. Io non voglio dividere il pubblico, ma, a prescindere dalle mie posizioni politiche, presentargli una fotografia della realtà il più leale possibile».
Canti anche tu nelle opere che allestisci?
«Per cantare bene bisogna essere riposati. Io arrivo già al secondo giorno delle prove talmente stanco che, anche se volessi, non riuscirei a fare nemmeno una piccola parte. Poi riconosco i miei limiti e non ho grandi ambizioni liriche».
E la musica leggera l’ascolti?
«Sempre di meno e non sono molto aggiornato. In macchina, durante i viaggi, sotto la doccia ascolto l’opera, ripasso le arie. Anche quando navigo in internet cerco gli argomenti legati all’opera. Mi rendo conto che sto diventando sempre di più monotematico. Mi è capitato di stare sdraiato 24 ore sul prato per un concerto di Vasco Rossi o di Ligabue. L’atmosfera è bella, ma dei concerti così li andrei a sentire a cadenza decennale perché a distanza di due o tre anni, a mio parere, non cambia niente, nemmeno una virgola».
Ebbé... all’opera invece…
«Andare a vedere lo stesso spettacolo, nello stesso teatro cantato con due cast diversi non mi provoca mai emozioni uguali. C’è comunque qualcosa che si muove, che si cambia, che vive. Nella musica leggera invece c’è un cantante con il microfono, che canta con filtri e riverberi, cercando di essere il più fedele possibile al suo CD».
Fai parte del “Loggione”?
«Il “Loggione” inteso come la gente che critica tutto e tutti no. Faccio parte di quelli che fanno la fila dal primo pomeriggio per godersi un’opera stando in piedi. Non posso permettermi di pagare 100 euro per vedere uno spettacolo. Spero, solo per ora».
La prossima stagione al Rosetum è stata già confermata?
«Sì. Chiudiamo questa con “Il trovatore” e un concerto lirico del 2 giugno per riaprire a ottobre con il “Nabucco”».