Teatro

Giorgio Ganzerli: 'Un attore non può essere solo comico o solo drammatico'

Giorgio Ganzerli: 'Un attore non può essere solo comico o solo drammatico'

Da Convenscion a Scatafascio, da Zelig a Scorie, Giorgio Ganzerli è conosciuto soprattutto come un autore comico. Molti lo ricordano ancora per i suoi divertenti personaggi come l'Homo Caffeina, il discotecaro incallito Ivo o il parodista della Famiglia Felice. Ha calcato molti palchi senza mai dimenticare la sua  grande passione per il teatro.
Quando hai deciso di fare l’attore?

«L’ho sempre voluto fare, da quando mi ricordo. Ero sempre tra i primi nelle recite dell’asilo, poi quelle scolastiche. Forse avrei fatto meglio di chiudere la mia esperienza là, ma alla fine mi sono diplomato al centro di ricerca teatrale di San Geminiano di Modena e sono venuto a Milano per lavorare con Quelli di Grock. Ma non come attore. Inizialmente sono entrato come un tecnico factotum e poi, a poco a poco, mi è stato permesso anche di recitare».

E, a parte le recite scolastiche, quale è stato il tuo primo vero spettacolo?
«Il mio primo spettacolo, di cui mi sento molto orgoglioso, è stato “Panini, patatine, ombrelli e fiabe”.  Era una produzione per bambini di Quelli di Grock con la quale ho girato quasi tutta l’Italia facendo duecento recite all’anno».

Molti ti conoscono soprattutto come un comico, ma ultimamente ti abbiamo visto più orientato verso i ruoli drammatici. Come mai questa trasformazione?
«Non c’è stata una grande trasformazione. Un attore non può essere solo comico o solo drammatico. Deve saper recitare e farlo bene. Può venir meglio una parte piuttosto che l’altra, ma, in generale, più che orientarmi sul genere valuto il testo,  se mi piace o meno».

A quanto pare, in questo momento ti piace interpretare soprattutto i personaggi negativi…
«Non è un segreto che per ogni attore sono le parti migliori. Ti permettono di sfogarti, di nasconderti. I miei due ultimi “cattivi” sono stati l’agente speciale Karn in “Sospetti (SOS)” di Barrie Keeffe e il padre-orco in “Ti voglio bene più di dio” di Mimmo Sorrentino. Entrambi attualissimi. Il primo spettacolo parla del razzismo e riporta una vicenda veramente accaduta a Londra nella notte in cui Margaret Thatcher diventa il primo ministro. Un giovane di colore viene accusato dell’omicidio della moglie e, trovandosi in un posto di polizia, viene maltrattato da me e dal mio collega-xenofobo. L’altro invece tratta il tema degli abusi sessuali in famiglia».

Tu che hai un figlio piccolo come hai vissuto l’ultimo lavoro?
«In realtà, per tutta la durata dello spettacolo io interpreto un affettuoso padre di famiglia la cui vera natura, si svela solo nell’ultima scena. E’ un argomento doloroso e certamente ho dovuto pormi delle domande per potermi immedesimare nel personaggio, per capire il suo modo di pensare, assolutamente lontano dal mio. Ma, a differenza di quello che potrebbe sembrare, non mi ha fatto soffrire».

Sei un appassionato di pugilato?
«No. Anzi, non ne capisco niente».

Perché allora uno dei testi che hai scritto e interpretato lo hai dedicato a Mike Tyson?
«Forse, proprio per questo, mi ha da sempre incuriosito. Sia come sport stesso che come personaggi che vi gravitano intorno. Tyson era una figura tipica degli anni 80’ e ho sempre avuto il sospetto che, più che un mostro, fosse un prodotto di marketing in perfetto stile di quegli anni.  Studiando le sue vicende ne ho avuto conferma. Con la sua uscita di scena, il pugilato ha perso molto. Ha perso pubblico, ha perso la ribalta, ha perso denaro. In pochi conoscono il nome dell'attuale campione del mondo dei pesi massimi. Sembra che Tyson abbia trascinato nell'oblio il mondo della boxe e questa, forse, è stata la sua vendetta».

Quale finora è stata per te l’esperienza più significativa?
«Sicuramente ”Salmodia della speranza” scritta da padre David Maria Turoldo e diretta da Giulio Mandelli. E’ stato uno spettacolo allestito in piazza Duomo a Milano in occasione del 60° anniversario della Liberazione. Parlava dell’olocausto e recitarlo assieme a Moni Ovadia e Maddalena Crippa davanti a una moltitudine di persone, molte delle quali portavano ancora un tatuaggio sul braccio, non poteva non lasciarti un segno nel cuore».

E quella più divertente?
«Forse alla radio. Lavorare, sapendo che nessuno ti osserva, ti crea meno ansie e ti fa sentire più rilassato».

Qual è il tuo autore preferito?
«Mi piace molto l’austriaco Thomas Bernhard. E’ un autore di una grande personalità e quindi non facile. E’ stata una bella esperienza lavorare insieme a Renato Sarti per la messa in scena  di “Ritter, Dene, Voss”. Anche se, in un certo senso, è stato un incubo. Lo spettacolo è stato pensato come sperimentale, quindi, durante la prima stagione al Teatro della Cooperativa, ogni sera dovevamo cambiare a turno i ruoli. Tanto è vero che l’anno dopo, presentandolo al teatro Litta di  Milano, ho interpretato solo Ritter, travestendomi da donna». 

A chi di voi due – a te o a Faiella - è venuto in mente di scrivere “Dizionario lei-italiano, italiano-lui” pubblicato da Vallardi?

«L’abbiamo fatto insieme per gioco. Che uomini e donne parlino due lingue diverse è un dato di fatto. Ogni tanto si capiscono, ma più spesso fanno finta. Il nostro tentativo è stato quello di aiutali a intendersi meglio. In più per mostrare che non sono un maschilista ho mi sono impegnato a scrivere quella parte che s’intitola “Italiano-lei”. Anche se non sono sicuro che è servito a molto».

Per questo hai deciso di riprovare con “In famiglia senza medico” presentato al teatro Golden di Roma alla fine dell’anno scorso?
«Lo spettacolo è stato pensato come una specie di elaborazione di “Un medico in famiglia”  in cui Gabriele Cirilli aveva preso parte. In effetti, anche qui abbiamo cercato di far emergere le varie differenze tra il mondo maschile e quello femminile. Io ho scritto il testo e curato la regia. Ci siamo divertiti tanto, spero anche il pubblico».