Non è depressione, ma una forma di vergogna, che spesso nasce da atti di bullismo. Un fenomeno che Katia Ippaso porta in teatro, in prima nazionale a Roma. Una "terapia preventiva" da espandere nelle scuole (e non solo): il ruolo del teatro è anche questo, quello di far riflettere sui fenomeni più attuali.
Letargia, isolamento sociale, zero contatti fisici. I giapponesi lo chiamano Hikikomori, letteralmente "stare in disparte, isolarsi: padri assenti, madri opprimenti e l’enorme pressione della società giapponese per il successo e l’onore.
Un fenomeno che in Giappone colpisce ogni anno due milioni di adolescenti (in Italia circa centomila) che rifiutano il contatto sociale e si rinchiudono nella loro stanza, tra Internet, ozio e forme di aggressività verso i genitori. La rete diventa quindi l’unico mediatore sociale e le terapie di reinserimento, quando funzio-nano, durano non meno di dieci anni. Un tema studiato e scritto per il palcoscenico da Katia Ippaso e Marco Andreoli (per la regia di Arturo Armone Caruso), dal 13 al 18 dicembre il Teatro dell’Orologio di Roma.
E’ il primo progetto di una trilogia collegata: ce la racconta?
Volevo scrivere tragedie greche contemporanee che riguardassero le nostre condizione attuali, sociali. Ho preso il Giappone, di cui sono studiosa dilettante, come scenario attuale. I giapponesi riescono a dare un nome a tutte le cose, ritualizzano l’esistenza. Quindi ho scritto Hikikomori, che parla di un ragazzino, Evaporati, una tragedia sui padri falliti lavorativamente e Doll is mine, che racconta le case del sonno, un posto dove si va a dormire con delle ragazze. Mi sono ispirata quindi a suggestioni dal reale e da suggestioni letterarie, tanto che anche Banana Yoshimoto mi ha dato spunto.
Qual è la causa di questa volontaria auto-esclusione, che peraltro sta prendendo piede anche in Italia?
Le nostre società occidentali non hanno quel fortissimo dell’onore e della disciplina tipica del Giappone, ma racconto anche di noi. In Giappone, molti uomini che perdono il lavoro vanno nelle cosidette «foreste » e si suicidano; c’è anche chi ti organizza una vita altrove- sono appunto gli evaporati. Si tratta di un disagio planetario, ma i giapponesi lo rendono reale, lo manifestano: e lo fanno trovando un nome al fenomeno, forse anche per esorcizzarlo. In questo testo c’è molto anche della Metamorfosi di Kafka, di cui Hikikomori è una particolare riscrittura, con un finale molto diverso.
C’è differenza tra hikikomori uomini e donne?
C’è eccome: la maggior parte di chi vive questo fenomeno è maschio, perché sono appunto i maschi a vivere una pressione sociale più forte. La donna può anche non lavorare. C’è un alto senso dell’onore nei maschi giapponesi in particolare. Hikikomori può essere anche associato ad altri fenomeni borderline ? Sicuramente. Io l’ho associato al fenomeno del bullismo: molte storie di hikikomori hanno infatti alla base storie di bullismo, di vessazioni. Poi ci sono diverse forme correlate che possono richiamare il fenomeno, o che in questo fenomeno possono sfociare. E dobbiamo essere attenti a ognuna di esse.
Ma l’hikikomori può essere considerato l’evoluzione del nerd ? Quanta colpa ha Internet ?
E’ importante capire che questo spettacolo non da’ la colpa a Internet: non ci sono giudizi sul fenomeno e critiche verso questi ragazzi. Volevo problematizzare il fenomeno, l’ho fatto: per gli hikikomori ho molta compassione e questo sostegno alla loro problematica traspare nello spettacolo. L’unico vero oggetto di scena è il computer , dove oggettivamente questi ragazzi trovano una qualche forma di riparo. Inoltre, dopo tanti anni in cui ho indagato i personaggi femminili, volevo parlare di personaggi maschili e in Hikikomori due protagonisti su tre sono maschi: il ragazzo (Giulio Pranno, diciottenne romano scelto tra cento candidati, ndr) e il Nonno, una figura fantasma molto interessante.
Portare questo tema a teatro è una vera denuncia sociale. Il teatro, in questo senso, può essere una forma di terapia o prevenzione?
Eccome se lo è: se noi riusciamo attraverso il teatro a non essere élitari e a trovare delle forme di accesso a questi segreti che questi ragazzi portano con i loro corpi abbandonati, dislessie e difficoltà, ovviamente può essere molto utile. In questo senso sarebbe fondamentale poterlo portare anche fuori dai luoghi teatrali puri, magari nelle scuole, dove possono nascondersi i primi semi di questi fenomeni. Se il teatro riesce – non per altro si parla di teatroterapia in tanti contesti - a far capire, a far riflettere e quindi in qualche modo a prevenire, questo spettacolo lo portiamo ovunque. E il teatro vince, ancora una volta.
Per info: SCHEDA SPETTACOLO