Scritto in Germania da un autore tedesco, “Push Up 1-3” sembra essere stato vergato apposta per una città come Milano: un impero di colossi (o mostri) dell’economia moderna, popolato da un’intera armata di coletti bianchi, stanchi e stressati, ma sempre pronti a sferrare l’attacco per guadagnarsi un posto al sole, ovvero ai piani alti. Forse non è neanche un caso che proprio il piccolo Teatro Filodrammatici,”immerso nella city”, abbia voluto dire la sua, aprendo la nuova stagione con la messa in scena di Roland Schimmelpfennig, uno dei drammaturghi di punta della nuova scena teutonica. Ci siamo incontrati con il regista Bruno Fornasari, co-direttore artistico del teatro, per chiedergli che impressione gli ha fatto vivere “dall’interno” l’esperienza quotidiana degli impiegati di un consorzio tedesco.
A quanto pare, rispetto agli altri paesi europei, Schimmelpfennig non è molto conosciuto in Italia…
«Infatti, di tutta la sua cospicua produzione, sembra che al giorno d’oggi in Italia siano stati allestiti solamente “Notte araba” e “Prima/dopo” ».
E’ stata una tua scelta personale o del teatro?
«Mia e di Amadio. E’ successo un po’ per caso. Durante la nostra permanenza all’ultimo Oslo International Acting Festival che ha visto la partecipazione di diverse autorevoli scuole teatrali - tra cui l’Actor’s Studio, quella di Checov e altre – siamo stati attratti in modo particolare dai seminari tenutisi dalla tedesca Hohschule. Per esplicitare il loro metodo di lavoro, prevalentemente brechtiano, i suoi insegnanti avevano scelto appunto “Push Up” che ci è piaciuto e sembrato subito molto appropriato per la nostra rassegna “Business in Business”».
Chi ha curato la traduzione?
«Abbiamo usato la traduzione precedentemente realizzata da Umberto Gandini».
Dopo aver letto il testo, che cosa ha suscitato in te il maggior interesse: la qualità dello scritto oppure la possibilità di comunicare qualcosa di importante?
«Entrambe. Trovo molto efficace la struttura frammentata scelta dal drammaturgo. Permette di esplorare bene le varie situazioni di sottomissione alla gerarchia. I dialoghi, colti nel momento di “alta temperatura”, svelano l’incapacità funzionale e relazionale dei cosiddetti top manager nel momento in cui, al rapporto umano, prediligono l’obbiettivo della carriera professionale. I monologhi, invece, oltre a mostrare fragilità, aspirazioni, debolezze di ognuno dei personaggi, ci aiutano a intravvedere quanto questo magma emotivo sia latente e possa esplodere in ogni momento.
Ci interessava anche la questione di tempo-ritmo, importantissima nella scuola di Brecht, alla quale il drammaturgo stesso ha attribuito molta rilevanza. Abbiamo intuito che, più che all’analisi del contenuto – sin dal principio altamente conflittuale - egli abbia pensato alla scansione ritmica dei dialoghi. Per cui anche noi abbiamo lavorato molto su quest’aspetto».
Hai conosciuto Schimmelpfennig di persona?
«Per ora i nostri rapporti si sono limitati a conversazioni telefoniche. Secondo la tradizione del nostro teatro, gli autori non sono ammessi alle prove. Chiediamo loro di darci solamente un feedback il giorno dopo la prima. Per cui lui ancora non ha visto nulla».
A parte la più comune traduzione di "reggiseno" il titolo potrebbe essere tradotto dall’inglese in diversi modi. Perché hai scelto “Spintarelle”?
«Infatti la presenza dei numeri, fa pensare anche alla misura. Tra le possibili varianti la parola “spintarelle” ci è parsa più adatta in quanto in tutti e i tre quadri c’è un’evidente allusione alla "raccomandazione” a fine di ottenere l’agognata promozione».
La tua è una visione da esterno oppure hai avuto a che fare di persona con la vita in ufficio?
«Non come dipendente. Tuttavia, collaborando con le grandi aziende nell’ambito dei leadership training, che al giorno d’oggi vanno tanto di moda, in questi ultimi cinque anni ho avuto modo diverse volte di assistere a situazioni molto simili a quelle descritte nel testo».
Pare che Schimmelpfennig volesse attribuire molta forza ai monologhi per svelare quel che accade nel mondo interiore dei personaggi, altrimenti chiusi nel loro guscio…
«Sono i momenti più caldi e, da parte nostra, cerchiamo di sfruttarli per creare uno stretto rapporto con il pubblico, facendolo diventare, in un certo senso, complice. E’ facile accorgersi di ripetizione di certi passaggi che, tuttavia, non rappresenta una fragilità del testo, ma l’invito dell’autore di soffermarsi su alcuni punti che devono essere sviluppati».
Si parla sempre più spesso del mobbing all’interno delle aziende…
«Non è il tema principale dello spettacolo, ma nell’ultimo quadro ne facciamo un accenno ».
A chi è rivolto lo spettacolo?
«A chiunque quotidianamente si trovi costretto a coesistere con la gerarchia aziendale».
E qual è il tuo invito?
«A far attenzione alle conseguenze e a non vedersi solamente nel funzionamento del proprio ruolo ricoperto nell’azienda. E, soprattutto, a ricordarsi degli aspetti umani, che nel nostro caso non sono mai pubblici».
Chi vedremo in scena?
«Ci sono tre attrici e tre attori. Michele di Giacomo e Emanuela Villagrossi sono due new entry, Marta Belloni e Vanessa Korn l’anno scorso mi hanno assistito alla regia del “Processo di K”. Infine ci sono Tommaso Amadio e Michele Maccagno».
In fin dei conti, “Push Up 1-3”è una commedia o un dramma?
«Secondo me entrambe. Ognuno riderà o piangerà a seconda del personaggio con il quale si troverà più in sintonia».