Teatro

Il magnifico a-solo di Gianmaria Testa

Il magnifico a-solo di Gianmaria Testa

Ha pubblicato in tutto 7 album in 18 anni di onoratissima carriera e ognuno è una chicca, colma di poesia, fantasia e fervore musicale. Ha condiviso esperienze musicali con grandi musicisti, diventando famoso prima in Francia, dopo un concerto all'Olympia che lo ha imposto all'attenzione di un pubblico che ama i cantautori di talento e la buona musica, poi nel resto d'Europa. Solo qualche anno dopo ha sfondato in Italia, rimanendo comunque un personaggio di nicchia. I pochi fortunati che lo hanno visto al Teatro Libero di Milano il 5 e 6 marzo scorsi, in una piccola sala al terzo piano di via Savona, tutto esaurito, se la sono goduta un mondo. Ricordo, per gli appassionati del meglio, i prossimi concerti: 11 marzo a Monte San Savino (AR), il 12 a Copparo (BO) e il 13 a Dolo (VE), dove si esibirà con Erri De Luca, noto scrittore ma anche chitarrista e ispiratore di canzoni, come “In nome della madre” che Testa ha arrangiato e musicato. Io invece gli ho parlato, assaporando ancora per un po' quella voce roca, bassa, gradevolissima. E l'ho provocato. Ho letto che per te suonare da solo rende meglio che in gruppo. Non sei un filo presuntuoso? (In realtà è magnifico sia da solo che con altri! n.d.r.) Intanto non c’è nessuna presunzione, anzi, il contrario. Nel salire su un palcoscenico c’è sempre una buona dose di narcisismo, si sa, per via delle luci, della gente che ti guarda... Per contraltare, io non faccio spettacoli: faccio concerti, da solo o con altri. il rapporto è sempre di 1 a 1 per me, un modo molto onesto , molto accattivante, per fare ciò che sento, cioè comunicare. Vuoi dire che la magia non cambia? Voglio dire che stare soli sul palco e’ molto stancante, non ho nessuno su cui appoggiarmi e ogni volta ne lasci un pezzettino di te, in definitiva. Che vuoi dire? Che se non c’è nessuno, quel pezzettino è più grande; si rimane un po’ svuotati, è faticosissimo. Se poi c’è un pubblico che senti quasi fratello, come quello incontrato al Teatro Libero, in quel teatrino ci si sente quasi fratelli, il rapporto è sempre possibile. Poi, amo suonare con altri e molti di loro sono diventati amici. Con Paolo Fresu (trombettista jazz, n.d.r.) ci organizziamo apposta con concerti da fare assieme, per frequentarci almeno una settimana l’anno. Con quale artista lavori meglio? Intanto io non mi considero un artista ma uno che comunica le emozioni, che è la cosa più difficile da comunicare. Metti un tramonto, una cosa dalla quale ti senti colpito: puoi dire ‘guarda che bello’ e non c’è altro da dire perché non trovi altre parole. Oppure ci scrivi una canzone, e ridi, o piangi. Questo è comunicare. L’arte invece è in’altra cosa: gli artisti sono quelli che precorrono i tempi. Loro vedono cose che, senza il loro ausilio, non potremmo comprendere. Metti Van Gogh: quando ho visto in una mostra, dal vero, i suoi 'Girasoli', sono stato investito da una serie di pensieri che mi hanno fatto capire tantissime cose. Vuoi dire che molti, che si credono artisti, non lo sono davvero? Sono un’altra cosa. Ogni tanto ti capita di incrociare qualcuno che è davvero speciale, come Erri De Luca. Il rutilante mondo della canzone è però anche fatto da tanta gentaglia, ci sono dei ciarlatani, veri cialtroni. Però si incontra anche tanta bella gente. L’aspetto negativo è che c’è una qualche frenesia in tutto questo, sempre in giro, in viaggio ed è difficile trattenere qualcosa di tutto ciò, di questi incontri. Infatti credo di essere uno dei pochi che telefona, per nostalgia pura. Chiamo poche persone ma ho bisogno di sentirle, di tanto in tanto. So che sei sposato con la tua produttrice, Paola. Ti segue sempre quando vai in tour? Siamo insieme da diversi anni. Non è che mi segue tantissimo perché abbiamo un bambino di 4 anni e mezzo. Talvolta vengono con me, questo è un lavoro non-lavoro, mi pare che sarebbe molto difficile se lei facesse una cosa non collegata. Come farei a raccontarle, dopo una serata, cosa ho provato? Invece lei è coinvolta, mi capisce. Poi, io non tergiverso, finito il concerto torno in albergo, voglio normalità. Non si direbbe, considerando i testi delle tue canzoni, in cui si sente il desiderio di fare conquiste spesso non riuscite o solo sognate... Intanto io scrivo canzoni da quando avevo 14 anni, cioè da quasi 40 anni, accidenti! Quindi molte canzoni sono per me vecchie, anche se gli altri non le conoscono. Ho il senso di non potermi allargare al mondo: il momento in cui dici un sì, inizia una sfilza di altri no. Cioè? Tutti noi arriviamo a un punto in cui non approfondiamo più i rapporti perché non ne avremmo il tempo, ci complicherebbe la normalità. Lo era e ora non lo è, perché quando nella vita arrivano i figli tutto cambia, le prospettive, le priorità... Hai scritto canzoni per tuo figlio? Gliene ho dedicate molte senza dirlo. Io non voglio e non riesco a scrivere cose troppo esplicite. Spero che ciò che scrivo sia sempre più allargato, poco personale, una cosa che puoi cantare anche fra dieci anni o sentirla cantare, senza che sia troppo personalizzata. Ho trovato divertenti gli intermezzi di dialogo col pubblico, fra un brano e l'altro. Sono tutti improvvisati o li scrivi? Sono tutti improvvisati! Vedi, solo a metà degli anni ’90, in Francia, qualche volta me li pensavo prima per potermeli far tradurre, ma era già un’abitudine, quella di far percepire a chi venirva ai concerti, senza capire cosa dicevo, cosa intendessi. Hai sempre cantato ovunque in italiano? Sì, ho sempre cantato in italiano. Eppure sei stato accolto con successo in mezzo mondo, vero? Giò. Io mi chiedo sempre perché, ad Amburgo, Berlino, a New York, la gente si sposti per sentire cose che non capisce. Ma, sarà che è evocativo, l’italiano, va bene. Ma la risposta non me la sono mai data. In Germania, in Austria, c’è un silenzioso rispetto che prorompe in applausi fragorosi e difatti mi vergogno un po’, alle volte e chiedo di stare calmi... A Napoli, dove il pubblico mi sembra capire di più la musica, l'accetto, ma sono sensazioni particolari... Non so mai che succede. Che vuoi dire? Pensa, l’anno scorso, fine ottobre, ho tenuto un concerto in una città del nord Europa con 15 gradi sottozero. Era una città mineraria, un non-luogo sperduto, assai grande. Arriviamo lì con una bufera di neve, teatro da 800 posti e io chiedevo chi mai sarebbe venuto. Non solo sono venuti riempiendo il teatro, ma canticchiavano le canzoni e non perché fossero italo-qualcosa, ma... davvero è stato strano. Credo che l'atmosfera compensi il linguaggio. Hai mai pensato di cantare in dialetto piemontese? Io sono nato in campagna e mio fratello continua a lavorarci. A me è successo di tornarci e con loro ho sempre parlato in dialetto, ma siccome ci sono articoli su di me, ora i miei vecchi compaesani mi parlano in italiano, perché mi vedono come persona pubblica e si è perso quel senso di intimità. E' paradossale, io rispondo in dialetto e loro mi parlano in italiano! Nella campagna piemontese, l’italiano si imparava a scuola; in famiglia se si fosse parlato italiano, ci sarebbe stata una tragedia in corso, quella lingua non si usa nella quotidianità. Così niente? Ho scritto un’unica canzone in dialetto e solo perché un dialogo l’ha generata. Ma, da quando è nata questa supremazia della Lega Nord ho scelto di lasciar perdere, perché trovo che distinguersi coi dialetti sia assurdo. Inoltre, io amo molto il napoletano, le parlate del sud e quindi l’ho fatto scientemente, di non cantare in dialetto.