Roberto Latini porta in viaggio con sé l'incompiuto di Pirandello, trasforma la parola in un personaggio e ricerca nella magia del palcoscenico la possibilità sacra data ad ogni attore: fare teatro esplorando i propri limiti. In occasione di questo secondo appuntamento al Teatro India di Roma, abbiamo raggiunto Latini per soddisfare qualche curiosità.
Da cosa nasce l’esigenza di lavorare su un testo come ‘I giganti della montagna’?
Lavorare con i classici è un’occasione teatrale, ho cercato un testo che non avesse una traduzione mediata. Inoltre è un testo incompiuto, quindi sospeso. Questa come motivazione principale. I Giganti della Montagna è un classico che può diventare altro possibile. Abbiamo come testimonianze le bellissime messe in scena che grandi registi e attori del nostro teatro contemporaneo ci hanno già regalato. In scena do spazio alle parole, non porto in scena nessun personaggio, semplicemente le parole, sono loro il personaggio che ho scelto.
Hai dichiarato che vuoi portare le parole di Pirandello oltre un limite che non conosci. Sei già riuscito (in parte o meno) e se si quale altro limite da superare hai individuato?
Avere a che fare con un testo così è avere un’occasione per fare teatro. Non voglio che ci sia mai dimostrazione di dove sia arrivato. E’ tutto a disposizione del teatro, alla sensibilità dello spettatore. Ognuno vede il suo e trova qualcosa che sicuramente io non potrei portare in quel momento.
Il mito. Che valore ha per un attore confrontarsi con esso.
I miti sono molteplici. I giganti è un testo contenuto nella trilogia e rappresenta il mito dell’arte. E’ incompiuto ed estremamente teatrale (dopo il religioso “Lazzaro” e il sociale “La Nuova Colonia”). Un mito anche perché sono diventati miti stessi le versioni di Strehler, De Berardinis. I giganti sono parole in movimento, un movimento capace di intercettare o immettersi nel ritmo del movimento preesistente.
Il rapporto con la parola. La interroghi, la ricerchi, la domini o ti fai dominare?
E’ piuttosto un attraversamento reciproco.
Usi l’amplificazione della tua voce per dare qualità alla parola e importanza ai silenzi. Da cosa riesci a valutare il momento in cui raggiungi il massimo risultato possibile?
Quando posso fermarmi appena prima. Allora capisco che è pronta per essere presentata.
Quali sono i limiti della voce e quelli del corpo che la sostiene?
Non ci sono limiti se non quelli dati dalla natura. C’è chi può aver avuto il dono del suono, chi del gesto. E vanno esercitati entrambi per poter avere un ascolto nelle due dimensioni.
A quale personaggio del tuo repertorio sei più legato e perché?
Non ce n’è uno. Ogni produzione ha un legame con me, la mia compagnia. Per 25 anni, i miei spettacoli hanno tracciato un percorso, scandito un tempo, una evoluzione. Ogni personaggio, nel momento in cui è stato prodotto ha avuto delle corrispondenze.
Cosa è oggi il teatro di sperimentazione?
E’ una etichetta di cui hanno bisogno alcuni per chiamare qualcosa che dovrebbe essere invece teatro. E’ un ombrello sotto cui ripararsi quando piove. Il teatro di sperimentazione è ormai storia che lega gli anni 60, 70 e primi anni 80, anni di metamorfosi fondamentali. Il resto è teatro contemporaneo (o no).
Un messaggio a chi vuole intraprendere il mestiere di attore?
E’ il bello e il brutto, non esiste una regola. Non abbiamo purtroppo un sistema che tuteli le bellissime artisticità. Mi dispiace dirlo ma se una persona può fare a meno di intraprendere questa strada, credo che sia giusto evitare.
Cosa ti aspetti dal pubblico che assiste ad uno spettacolo?
Rispondendo da spettatore, spero di non essere intrattenuto a teatro, ma che mi venga offerto qualcosa che sia nelle mie disponibilità. Sono sicuro che il teatro succede insieme. Altrimenti cosa se ne fa della sua arteficità.
Invece dal pubblico che assiste a ‘I giganti della montagna’?
Non mi aspetto un giudizio. Non è qualcosa in mostra, non ha una etichetta o un prezzo. Vorrei che si trasformasse la disposizione di ognuno in disponibilità. Questo mi piacerebbe.