Ammirato dai più grandi personaggi dello spettacolo, tra cui Strehler che lo volle in ‘El Nost Milàn’ nel 1961, ha lavorato al cinema coi migliori registi italiani, come Lizzani, Petri, Dino Risi e Festa Campanile. Ora Andreé Ruth Shammah ha voluto che Piero Mazzarella, classe '28, incarnasse la figura del clochard etilista di La leggenda del santo bevitore, capolavoro creato da Joseph Roth. L’autore di questo romanzo è nato al tramonto dell’Ottocento ed è scomparso nel 1939, a soli 44 anni, proprio a causa dell’alcolismo. Piero Mazzarella, capace di meditare sulle difficoltà della vita, sa incarnare chi soffre fino a farne vibrare l’anima. Dall’8 marzo al 1° aprile al Teatro Parenti, nella sede provvisoria di via Tertulliano, l’attore appare in una commedia che lo vede protagonista assoluto. Parla con grande cortesia, è grande e grosso, la voce flebile ma il tono è potente e parla spesso come volesse bisticciare. Risponde alle domande come fossero provocazioni.
Le sembra rischioso recitare in teatro un testo che molti ricordano come film di successo?
Io ho fatto 243 commedie, non m’importa se sono state fatte anche al cinema. Io questo film l’avevo visto e l’ho trovato un po’ troppo cattolico. Tutto quel messaggio spirituale non ce lo vedo. Il protagonista è uno a cui piace bere e basta. Poi ringrazia Dio per averlo fatto fino alla fine.
Le piacerebbe fare ancora cinema?
Ho ricevuto una proposta per fare un film con attori che hanno solo 30 anni e hanno già fatto 50 pellicole. Cosa significa? Chi sono questi? Io sono stato antagonista di Alberto Sordi, con la regia di Elio Petri, ho lavorato con Pasquale Festa Campanile, con Lizzani. Non le considero medaglie da mettere sul petto, ma oggi i giovani fanno una comparsata e gli diventa curriculum. A me non interessa, sono stufo di lavorare in questa maniera: dilettantismo, telegatti, isole dei famosi… Mi fanno solo un’austera pena.
Come dovrebbero essere i giovani attori?
Guardi, io ricordo Ruggero Ruggeri in carrozzella che ha dato la voce a Cristo, lui è stato il mio maestro. Come faccio adesso a lavorare con questi che non parlano, che non sanno neanche respirare! Li guardi e ti chiedi dove hanno imparato. Sa, io sono qui da due ore a fare prove, anche so ho 60 anni di carriera alle spalle. Senza disciplina non si fa niente. Noi siamo al servizio del pubblico, l’unico che ha diritto a giudicare, applaudire o fischiare. Delio Tessa lo diceva: “Riconosco solo il mio maestro: il pubblico che paga”.
Lei è figlio d’arte?
Certo, i miei genitori erano attori di giro, io sono nato in una casa di ringhiera, a Guittalemme.
Dove?
E’ un termine arcaico, che sappiamo solo noi attori di un tempo. Significa guitti, nati poveri come quello là, venuto da Betlemme: Guittalemme è il nostro luogo di nascita.
Cosa pensa dei film e degli spettacoli americani?
Io so che i veri Americani sono stati messi nei ghetti e la loro terra è stata popolata con la feccia d’Europa. Una volta, la sifilide la chiamavano ‘Mal Francese’ e lo sapevano tutti che cosa era successo nel ‘700.
Lei ha sempre uno spirito ribelle. Si sente ancora giovane alla sua età?
Il giorno che non riesco più ad allacciarmi le scarpe da solo, mi prendo qualcosa per farla finita. Ma fino ad allora mi godo la vita.
In teatro si presenta quasi da monologhista, ci sono pochi interventi esterni in questo spettacolo. Non trova scomodo fare sempre il mattatore?
Penso che un attore debba essere capace di parlare anche per tre ore al pubblico, sottovoce e con molta calma, come tutti quelli che hanno sicurezza. Da quando avevo 6 anni, che facevo parti da bambini coi miei genitori, ho imparato che si lavora così.
La fecero recitare fin da così piccolo?
Sì. Per me e per mio fratello, se eravamo promossi, cioè sempre, le vacanze estive consistevano nel seguire loro, che recitavano in giro. A quei tempi si mettevano in scena tanti spettacoli con dei bambini. Noi eravamo felici. Ricordo di aver detto una volta a mio padre (lo ricordo come fosse qui ora) che mi aveva trovato seduto su delle corde, dietro al palcoscenico. Gli dissi “Senti che buono questo odore?”. Lui mi cercava da un po’ e in quel momento ha capito che io ero stato trafitto dal mal del teatro. Il palcoscenico mi aveva trasmesso la sua polvere. E’ come la cocaina, ma è una sostanza che non fa male. Anzi, aiuta a vivere.
Cosa pensa di quelli che si lasciano andare?
Io lavoro da 60 anni, coi contributi sempre pagati. Non andrò neppure mai in pensione, visto che sto sempre sul palcoscenico. Bisogna potersi guardare in faccia ogni giorno.
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