Camillo Olivetti. Alle radici di un sogno è in scena al Piccolo Teatro Studio fino al 2 novembre ed è un magnifico monologo interpretato da Laura Curino, che lo ha rispolverato in occasione del centenario della Olivetti che, nel 1908, creò a Ivrea la prima macchina da scrivere interamente progettata e fabbricata in Italia, con un design che l'ha portata nel tempo al Museo d'Arte Moderna di New York, il Moma. L'uomo che ne fu capostipite, Camillo, l'inventore, il pioniere, l'uomo che visse a cavallo tra l'Ottocento e i primi del Novecento, ci viene presentato come lo avrebbero potuto raccontare due sue donne: la madre e la moglie.
Chi ama le produzioni del Laboratorio Teatro Settimo, che da oltre vent'anni rinnova il linguaggio drammaturgico-visivo con le geniali ideazioni registiche di Gabriele Vacis, non deve assolutamente perdersi questa chicca, lo spaccato di un'epoca lontana che provoca imprevedibili nostalgie grazie all'energia di un uomo, Camillo Olivetti, che dal nulla crea un'industria che trasforma il volto e l'anima della città in cui risiede, Ivrea.
Adriano, uno dei suoi sei figli, lo sostituisce nell'azienda che si apre al XX° secolo ed è il titolo dello spettacolo che il Piccolo Teatro Studio ospiterà subito dopo, dal 4 al 9 novembre, Adriano Olivetti. Sempre alla regia Gabriele Vacis e sul palco Laura Curino, qui insieme a Mariella Fabbris e a Lucilla Giagnoni. Ottengo un incontro con Laura in camerino, dopo che il pubblico le ha tributato un applauso simile a un'ovazione. La capacità di catturare emozioni è quasi una routine, per questa donna dai capelli ricci e lunghi, la fronte alta, gli occhi tondi, i sorrisi improvvisi, i movimenti veloci. Sembra faticare a star ferma ma per un po' ci riesce.
Laura, ti saresti immaginata di avere ancora successo con una pièce di 12 anni fa?
Se ci penso... Abbiamo realizzato credo 500 repliche! No, non avrei mai immaginato di arrivarci e gli spettacoli sono due, prima Camillo poi Adriano, il primo l'eroe solitario, il secondo l'uomo che preferisce condividere e delegare, senza mai perdere nulla della sua autorevolezza.
Ma negli anni questi spettacolo sono un po' cambiati?
Oh sì, li possono rivedere quelli che ancora ricordano di averne visto uno anni fa. Qualche cosa è cambiato pure fra noi tre che facciamo l'Adriano, voglio dire fra me, Mariella e Lucilla: c'è un'affinità che 12 anni fa non c'era, tanto per cominciare e abbiamo conosciuto tante persone con quel respiro. Mi riferisco ai due anni trascorsi a raccogliere materiale, quando consideravo la famiglia Olivetti con un po' di scetticimo e infine ho dovuto ammettere che alle volte nasce un genio.
Perché hai voluto farlo?
A dir la verità era Gabriele Vacis che ci pensava. Aveva appena finito di fare Vajont con Marco Paolini e voleva fare altro. Ma Marco andava bene per il Vajont perché lui era di quelle parti, conosceva i luoghi e nessuno decideva che fare dell'Olivetti. Alla fine ho detto Basta, adesso lo faccio io, ho 25 anni di teatro sulle spalle! ma ero diffidente e le biografie, i documenti, mi pareva chissà chi. Invece, iniziando le interviste con operai, quadri, si sono alzate alte voci armoniche che ne davano sempre la stessa immagine di uomo sincero, semplice, giusto. Un capitalista socialista.
Era amato?
Ho parlato con chi ha aperto il testamento: non ha trovato un soldo. Tutto era investito nell'azienda. Chi lo fa oggi? Ma Olivetti fece costruire il primo calcolatore elettronico al mondo, Elea 9000, quando nessuno immaginava neppure che sarebbe esistito un personal computer. Lui era avanti di 50 anni e l'ha pagata.
In che senso?
Da sinistra e da destra: c'era chi lo tacciava da padrone e altri che lo chiamavano il 'padrone rosso'. D'altra parte perché fare opposizione in un'azienda dove non serviva chiedere il sabato da trascorrere a casa perché in Olivetti accadeva da 2 anni, prima che nel resto d'Italia. Come protestare, quando gli aumenti erano automatici, in un Paese che ancora doveva crescere? Eppure è stato dimenticato per 20 anni, quasi fosse meglio non parlarne.
Ma si fanno convegni su Olivetti, sia a Milano che a Torino, no?
Finalmente, ora è studiato nuovamente anche all'università, ci sono giovani che ci scrivono su delle tesi. Forse un po' è stato anche merito mio? O è solo il fatto che gli artisti ci arrivano prima, a capire cosa è importante? Per saperne di più vale la pena leggere la biografia di Valerio Ochetto, Adriano Olivetti è il titolo ed è ben scritta.
A te cosa ha colpito?
La storia di Camillo, ebreo, sposato a una valdese, ateo, fondatore di aziende, che vive in un ex convento cattolico industrializzato. Muore nel '43 e dei signori che lo conobbero ricordano che batteva i piedi quando era arrabbiato. Prima di sposarsi la prima volta andò dal signor Levi, padre di Natalia Ginsburg, per chiedergli la mano della figlia Paola, sorella di Natalia. Poi divorziò da lei e dalla seconda moglie ebbe la figlia Laura, oggi presidente della fondazione Olivetti. Tutta la sua vita mi colpisce.
E il figlio?
Adriano era diverso, un grande manager e ci teneva che l'azienda conservasse la dignità dei diritti umani. Ha prodotto una cultura umanistica e diretto il piano regolatore della Valle d'Aosta, offrendo al canavesi uno dei migliori arredi urbanistici mai visti. Un idealista che, quando è morto all'improvviso a 59 anni, lascia 36.000 dipendenti impiegati fra aziende sparse per oltre la metà all'estero. Tutto il mio materiale è estrapolato da libri, articoli, è tutto documentato. Ho trattato tutto come una storia pubblica, mentre il privato è appena accennato dalle parole delle donne che al solito hanno aiutato questi grandi uomini nel loro lavoro e nella vita.
E il padre di Camillo?
Un rabbino di Modena aveva combinato il matrimonio fra la giovane Elvira e un anziano uomo di Ivrea, che morì pochi anni dopo lasciando la mamma di Camillo con tanti altri bambini da crescere e tanti sogni un po' sbiaditi. Ma lei seppe regalare ai figli un senso di libertà e di giustizia che rese quanto meno Camillo il grande inventore che fu. Pe Elvira, invece, 'niente più balli, carrozze, cultura, come a Modena...'.
Ti piacciono davvero, queste persone?
Le amo perché ci posso cantare la fabbrica, quello è il mio paesaggio. Migliaia di persone ne hanno fatto un paese ma non è facile trovarvi la poesia e, se posso farvi una dedica a me e a loro, è che hanno creato il benessere col loro lavoro. Hanno cambiato il paese tutto. Io ho campato di fabbrica dalla nascita: tutta Torino si muove a ritmo della fabbrica, attraverso la Fiat o attraverso l'indotto, mentre c'era il mito dell'aristocrazia creato dalla fabbrica Olivetti. A Ivrea, se un operaio si ammalava, veniva chiamato il miglior medico del mondo. Olivetti ha creato case editrici come le Edizioni Comunità che, dopo la guerra, pubblicò i libri di Hemingway e di Cesare Pavese, di cui Adriano Olivetti aveva comprato i diritti. Ha praticato la psicologia del lavoro, il design con Ettore Sottsass, l'urbanistica... Aveva chiamato Le Corbusier per fabbricare le case degli operai e i più grandi architetti del tempo! Se Ivrea è un monumento del nazionalismo italiano, seconda solo a Berlino, è merito suo. Forse diventerà Patrimonio dell'Umanità.
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