"Con la Cittadella inchiodavamo alla TV un terzo degli italiani: oggi le reti private hanno portato l'imbarbarimento” E il nome d'arte glielo ha dato Vittorio De Sica.
Ecco la terza e ultima parte dell'intervista a Laura Efrikian (prima parte - seconda parte), grande protagonista dello spettacolo italiano negli anni d’oro, il ventennio tra la fine degli anni '50 e la fine degli anni '70. Ascoltiamola mentre ripercorre la sua carriera.
Il fatto di essere di origine armena ha influito sul tuo modo di essere attrice?
Certamente. Io sono italiana, ho studiato in Italia, ma mi sento per metà anche armena. E mi sono molto scandalizzata quando il Senato italiano non ha usato la parola genocidio, a proposito dello sterminio degli armeni, solo perché glielo aveva chiesto Erdogan, il premier turco. Un vero ricatto: se usate la parola genocidio, noi non vi diamo più il gas.
Hai conosciuto Charles Aznavour?
Si, certo. Lui diceva: io sono 100% francese e 100% armeno. L’ho conosciuto a Napoli, quando aveva fatto Senza Rete insieme a Gianni (Morandi, ndr). Per me era un mito. Quando ha saputo che mi chiamavo Ephrikian mi ha detto “Ah, ma allora qui a Napoli c’è tutta l’Armenia!”. Poi mi ha detto delle frasi in armeno, ma io purtroppo non lo parlo.
Prima dicevamo che hai lavorato anche con Arnoldo Foà.
Si, una cosa piuttosto traumatica.
In che senso?
Mettevamo in scena a Venezia uno spettacolo di Federico Garcia Lorca, La calzolaia meravigliosa. Io e la sorella di Arnoldo Foà facevamo delle piccole parti. La sera della prima mi sono bloccata. Mi ha preso un attacco di panico, non volevo uscire. Mi è venuta addirittura la febbre alta. Lui ha fatto quello che ogni capo comico deve fare in casi del genere: mi ha dato uno schiaffone tremendo, proprio di quelli che ti girano la faccia dall’altra parte. Mi ha dato lo schiaffone e mi ha detto: "Esci!" E io sono uscita.
Ed è servito?
Beh, i miei amici mi prendevano in giro, dicendo che poi ci sarebbe voluto un altro schiaffo per farmi smettere di stare in scena.
Racconta...
Eravamo in quattro, facevamo le vicine: una rossa, gialla, verde, blu. Mi ricordo che una era Esperia Pieralisi, l’altra era sua sorella che poi prenderà il nome d’arte di Virna Lisi. Ad un certo punto si misero a ridere e poi uscirono di scena; io non capivo perché ridevano e perché erano uscite, e così sono rimasta. Mi sono impadronita delle parti delle altre vicine: non c’era nulla di individuale, era una cosa tipo coro e quindi intercambiabile. E quindi ho fatto questo monologo delle vicine e poi sono uscita, dicendo: Non potevo mica lasciare questo vuoto in scena! Foà mi ha guardato, strabuzzando gli occhi, e mi ha detto: "Tu farai l’attrice tutta la vita, ho già capito".
L’ho incontrato anni dopo, ad un evento per i 50 anni della televisione. Eravamo seduti vicino. Gli ho detto: Ciao Arnoldo. Ma tu ti ricordi che una volta mi hai dato uno schiaffone tremendo? Lui mi ha risposto: Sì, certo. Ma ti è servito, almeno? Io gli ho detto: guarda, di tutte le sberle che ho preso in vita mia, la tua è stata sicuramente la meno dolorosa, quella che mi ha aiutato di più. Foà era una persona stupenda, ogni tanto la sera mi guardo qualcosa su You Tube.
Tu hai fatto la Cittadella, uno sceneggiato Tv che è rimasto nella mente di tutti coloro che guardavano la Tv negli anni 60.
Si, è stato il secondo sceneggiato che ho fatto. Il primo era stato Rosella, un racconto a puntate di Anna Maria Romagnoli per la Tv dei Ragazzi, tratto dal romanzo di L.M. Alcott “Otto cugini”. Con me c’erano Gianni Agus, Paolo Modugno e Angela Cavo, la regia era di Lelio Golletti. Anton Giulio Majano aveva pensato a me per una piccola parte nella Cittadella, ma sembrava quasi dispiaciuto. “Sono solo due o tre battute”, aveva detto. Io gli ho risposto: "Majano, lei sa che non conta il numero delle battute che si dicono. Conta come vengono dette." Questa cosa lo colpì molto. Mi scrisse un biglietto. C’era scritto: Avevi gli occhi di un passerotto, e invece sei un’aquila! E così mi diede questa parte di Mary Boland.
Dovevo dire tre battute, che invece diventarono 30 o 300, non mi ricordo. Majano inventò la parte di questa giovane malata ai polmoni ed ebbi un successo personale incredibile. Ma va considerato che allora c'era solo il primo canale, e chi voleva vedere la televisione doveva vedere quello. Avevamo 15 milioni di persone che ci guardavano. Io facevo la parte di una giovane malata che si innamora di Alberto Lupo e lo guarda come se fosse Dio in terra. Io certo sono un' attrice, so che si recita anche col viso e non solo con le parole, e quella parte mi stava a pennello: c’erano tutti gli elementi per avere un grande successo personale. Insomma, dopo quel successo Majano mi volle anche per il David Copperfield.
Com’era Alberto Lupo?
Alberto Lupo era un amore di persona: una delizia di persona, veramente. Semplice, bello, carino di modi, gentile. Ho di lui un bellissimo ricordo, perché poi siamo andati insieme a Firenze, dove allora c’era una delle sedi della Radio Nazionale. All’epoca molte commedie radiofoniche le trasmettevano da lì.
A Firenze facemmo Picnic, una commedia in tre atti di William Inge. Era il maggio del 1965. Poco prima era uscito anche un film su questa commedia, interpretato da William Holden e Kim Novak. Nella commedia radiofonica italiana la protagonista era Anna Maria Guarnieri. Io interpretavo la parte di sua sorella minore. Insomma ho fatto tante cose, sia alla radio che alla televisione. L’unica cosa che non sono mai riuscita a fare è stato il doppiaggio. Potevo doppiare me stessa ma non gli altri attori, perché mi incantavo a guardarli.
Ma ci hai provato?
Solo una volta una direttrice di doppiaggio si era messa di buzzo buono per farmi provare. Mi diceva: Laura, non è possibile che non ci riesci. Eppure tu hai una voce perfetta per doppiare un’attrice importante. Insomma, volevano farmi doppiare Geraldine Chaplin. Avevano bisogno di una voce come la mia, che non era una voce bella, profonda. Io avevo una voce sottile. Ho patito non sai quanto per fare quel doppiaggio. L’ho doppiata in due film, poi ho detto basta. Solo che contemporaneamente ha detto basta anche lei, proprio come attrice, e quindi non c’è stata l’occasione di doppiare un terzo film.
Com’era Anton Giulio Majano?
Una persona particolare, lo prendevamo anche un po’ in giro. Aveva fatto la guerra d’Africa, lo chiamavamo Il Colonnello. Quando eravamo in prova lui partiva con i suoi ricordi di guerra, tanto che noi scherzando dicevamo che aveva fatto la guerra dei Romani contro Cartagine, era partito da lì. Era passato dalle Alpi con gli elefanti. Lo prendevamo in giro; noi eravamo giovani, sciocchi, e lui in effetti era anche un po’ noiosino, diciamo la verità. Questo solo dal punto di vista umano, però. Invece è stato un regista che se voleva fare emergere un attore ci riusciva, perché sapeva muovere le camere in maniera splendida.
Un attore veniva servito veramente bene: i protagonisti di allora lo sanno, che gli devono molto. Io per prima. Nella Cittadella avevo una parte piccola, avevo poche battute. Ma non c’è stata solo una parte recitata a voce, come dicevo. Lui mi faceva recitare con la faccia, avevo dei primi piani straordinari. Lui aveva veramente una grande capacità di riprendere gli attori: oltretutto con il bianco e nero, con le luci che venivano dall’alto… Erano tecniche proprio agli albori. Se penso a quello che si fa oggi in un semplice programma di intrattenimento, con il movimento delle telecamere, le luci di ben altra complessità.
E’ pazzesco pensare che nello stesso studio noi abbiamo fatto il David Copperfield con i mezzi di allora. Avevamo tre macchine in bianco e nero, dei padelloni luminosi che venivano dall’alto e qualche luce da sotto: praticamente abbiamo fatto un miracolo, ed il merito era di Majano. Lo sceneggiato in certi punti risulta un po’ prolisso, perché Majano voleva seguire il romanzo il più fedelmente possibile. Non ha saputo essere più stringente, in certi momenti. A volte c’erano troppi silenzi, troppi primi piani: e non tutti gli attori reggono un primo piano per più di tre secondi.
Eppure gli sceneggiati piacevano.
Piacevano moltissimo: al pubblico e anche a noi che li facevamo. Ancora oggi molti mi scrivono: ma perché non trasmettano più quegli sceneggiati che ci piacevano tanto? O, meglio ancora, perché non ne fanno di nuovi? Devo dire che anche io non capisco perché è stata abbandonata questa strada di usare la letteratura come un romanzo da mettere in scena. Adesso sembra che si possa fare questa operazione solo con i gialli: anche se alcuni sono fatti molto bene, come quelli di Montalbano. Ma comunque dietro c’è sempre uno scrittore del calibro di Camilleri.
Ovviamente c’è qualche eccezione. Recentemente ho visto L’amica geniale, tratta dai romanzi di Elena Ferrante. Stavo pensando che oggi sarebbe completamente impensabile realizzare un prodotto come Il mulino del Po, tratto dal romanzo di Riccardo Bacchelli. Ma si potrebbe fare una bella riedizione di My fair lady, il celebre musical tratto dal Pigmalione di George Bernard Shaw.
Vedrei bene come protagonista la napoletana Serena Rossi, che ho visto recentemente nella fiction tv Mina Settembre. Mi piace molto anche Luisa Ranieri, la moglie di Luca Zingaretti, che ha fatto recentemente Le indagini di Lolita Lobosco, una serie tratta dai romanzi di Gabriella Genisi.
Tu che sei stata una protagonista dello spettacolo in quella che per molti è l’età dell’oro, il periodo tra gli anni 50 e 70, come vedi lo stesso mondo oggi? Si è involgarito, imbarbarito, oppure no?
Per me, non so per altri, a volte è addirittura imbarazzante vedere cose come Il Grande Fratello. Le reti Mediaset – e non è solo un mia opinione – hanno portato l’incultura in televisione. Parlare di imbarbarimento generale non è esagerato, anche perché poi la Rai ha seguito Mediaset per non perdere ascolti. Penso a trasmissioni come Drive In, con tette e culi fuori, in bella vista. Ho intravisto una cosa dove c’erano delle coppie; gli uomini venivano separati dalle donne e poi si voleva vedere chi tradiva per primo. Alla fine penso che si siano quasi tutti separati, oppure fanno finta e ci vanno per i soldi. Insomma, delle cose allucinanti. Al programma La pupa e il secchione, nelle prove di selezione hanno chiesto a una ragazza chi era Nino Bixio e lei ha risposto: un cantante degli anni 50. Posso solo pensare che la gente, oppressa da brutte notizie che arrivano in continuazione e che lasciano angoscia, alla sera voglia vedere la qualunque pur di farsi una risata o staccare la spina del cervello.
Però c’è anche la cosiddetta Tv del dolore, o la Tv-Verità.
Mi capita di vedere Forum, sulle reti Mediaset. Barbara Palombelli è molto brava, educata, misurata. Ma le vicende che vengono raccontate spesso sono terribili. So che c’è un misto di persone reali e di attori, ma non è ben chiaro chi recita e chi invece è il protagonista reale. Ad un certo punto uno dice una parola di troppo, l’altro lo aggredisce. Escono fuori storie di disagio, cose terribili anche di famiglia: insomma, non mi sembra che sia una cosa così divertente. Diciamo che può essere abbastanza curioso scoprire un certo tipo di umanità, che magari non va in tribunale anche a causa delle lungaggini della giustizia vera.
Chi ricordi con più piacere tra tutti gli attori con cui hai lavorato?
Giancarlo Sbragia, per la generazione passata, e Giancarlo Giannini per quella dopo: entrambi due attori straordinari. In generale ricordo con stima e affetto molti attori che avevano lasciato il teatro per il cinema o la televisione, in cui facevano benissimo parti secondarie: di solito i genitori, o i parenti dei protagonisti.
Penso ad esempio Nino Taranto, che nei musicarelli faceva sempre mio padre. Poi alcuni degli attori con cui ho fatto Le piccole volpi, un testo bellissimo, con la regia di Vittorio Cottafavi: eravamo io, Mario Feliciani, Lyda Ferro, Dorothy Fisher, Giancarlo Sbragia, Enzo Cerusico, Roldano Lupi, Diana Torrieri. Lida Ferro faceva la parte di mia zia, alcolizzata. La prima attrice era Diana Torrieri. Enzo Cerusico faceva mio padre.
Cottafavi è stato un altro che ha puntato molto su di me. Con lui ho fatto anche il mio primo film, una pellicola del genere peplum: Ercole alla conquista di Atlantide. Io recitavo con lo pseudonimo di Laura Altan: facevo Ismene, la figlia di Antinea, regina di Atlantide, ed ero il personaggio comico della situazione. La storia era che la regina poteva rimanere regina se sacrificava agli dei sua figlia: Ismene, appunto. Tentano di ucciderla in tutti i modi: la danno da mangiare a un bestione che esce dall’acqua, poi si trasforma in roccia e poi la legano su un cavallo, poi la legano all' albero della nave. Insomma, questa poveretta doveva morire ad ogni costo. Tutte le scene in cui c’è lei, accade qualche disgrazia. Poi arriva Ercole, con il figlio Hyllos, un attore giovane molto carino che mi faceva la corte. Il cast era di tutto rispetto, per l’epoca: Ercole era Reg Park, un inglese che era stato anche Mister Universo. Poi c’erano Ettore Manni, Luciano Marin, Salvatore Furnari, Enrico Maria Salerno, Fay Spain, Gian Maria Volonté, Mario Valdemarin, Ivo Garrani, Mimmo Palmara, Mario Petri, Luciana Angiolillo e Nando Tamberlani. L’aiuto regista era Duccio Tessari. Vittorio Cottafavi era straordinario: sembrava un lord inglese, con il suo sigaro, alto, distinto, stimatissimo.
Come mai questo nome, Laura Altan?
Il mio cognome vero, Ephrikian, con la ph che si pronuncia F, non lo voleva nessuno: dicevano che la gente non riusciva a pronunciare il mio nome. E così in seguito con Vittorio De Sica lo abbiamo cambiato un Efrikian. Ma per il primo film avevo pensato di usare il cognome di mia nonna materna, che era la contessa Altan.
Mi ricordo che Cottafavi, passeggiando nello studio con il suo sigaro aveva detto: Altan va bene, facile da pronunciare, da ricordare. Però è anche vero che chiamare Altan una ragazzetta della tua statura, non mi sembrerebbe appropriato. Io ti avrei chiamato Bassan. ‘Sto impunito!, come dicono a Roma.
Quindi hai conosciuto anche De Sica?
Si, molto bene. Perché ero amica di Emilia, la figlia, che lavorava all’agenzia William Morris, che mi rappresentava. E così andavo spesso a cena da loro. Insomma, su De Sica credo di sapere molte cose.
E come è andata la faccenda del nome?
La sera vado a casa di Emi, quasi in lacrime. Vittorio mi vede e mi chiede cosa c’è. Non so più cosa fare, gli rispondo. Il mio cognome Ephrikian non va bene; Altan non va bene perché mi prendono in giro e dicono che sono Bassan. Non so più come mi devo chiamare!
E lui?
“Ti racconto un aneddoto – mi ha detto – Una volta facevo dei provini. Arrivano tante belle ragazze. Tra loro c’è una giovane della Ciociaria: molto, molto carina, e anche fotogenica. La ragazza passa quindi la prima fase del provino e arriva al colloquio. Signorina, le dico, lei in fotografia viene molto bene, e so che vuole fare l’attrice. Come si chiama? Lei risponde, scandendo bene le sillabe: LOL-LO-BRI-GI-DA. Io rispondo: per carità signorina! Non può pensare di fare l’attrice con un cognome così! La gente non se lo ricorda, non lo imparerà mai! E sai lei cosa mi ha risposto? L’HANNO A IMPARÀ. Ecco, fai così anche tu. Mettici una F al posto del ph e poi che si arrangino”. E così ho fatto.
FINE
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