A dicembre, allo Spazio Tertulliano di Milano, Carmelo Rifici ha presentato il suo ultimo lavoro “Materiali per Medea” di Heiner Müller scegliendo Mariangela Granelli per il ruolo della sacerdotessa della Colchide, rivisitato dal celebre intellettuale della Germania dell’Est, per molti anni direttore artistico del Berliner Ensemble. Ci siamo incontrati con l’attrice per parlare di questa sua tanto intensa quanto eccitante esperienza durante la quale ha dovuto non solo recitare la parte della famosa barbara, ma anche spogliarsi, esibirsi in una sexy dance e persino tuffarsi in una piscina appositamente costruita sul palco.
Di chi è stata l’idea di mettere in scena Müller?
«E’ stata un’idea di Rifici e quando me l’ha proposto mi sono un po’ spaventata: il testo mi è parso difficile già alla lettura. Nello stesso tempo il suo contenuto mi ha fatto provare delle forti emozioni, soprattutto nella sua parte centrale, scritta sotto forma di versi. Quindi mi sono fidata dell’esperienza e delle capacità del regista che, probabilmente conoscendomi bene, già l’anno scorso mi aveva fatto fare un simile salto nel buio con Clitennestra, una parte fortissima, direi quasi estrema. Ora posso dire che questa pièce è una meravigliosa occasione per un’attrice».
“Materiali per Medea” non è un testo particolarmente rappresentato. Pochi registi hanno avuto coraggio di avventurarsene. In Italia Elio De Capitani, all’estero, tra i più noti, il russo Anatoli Vassiliev.
«Ho preferito di non vederli per non sentirmi suggestionata dall’interpretazione altrui».
Tutte le eroine degli antichi miti che lei ha interpretato in precedenza: Fedra, Elettra, Clitennestra… Come hanno influenzato la creazione di questa Medea?
«Indubbiamente mi hanno aiutato a percepire la tragedia dal punto di vista epico. Per quel che riguarda invece Medea di Müller, credo che il suo personaggio, alla fine, c’entri e non c’entri. Più che l’altro, soprattutto nell’ultima parte – a detta dell’autore stesso - si tratta di “un collettivo che parla”. Anche per questo, secondo il parere del regista, sarebbe stato sbagliato per me cercare di immedesimarmi nei personaggi. Parlo al plurale perché si tratta di una trilogia con tre personaggi completamente diversi. Il mio compito non era quello di portare la parola, ma di restituirla, di esserne attraversata e spogliata».
Lavorando sul testo lei si è basata in qualche modo sulla propria esperienza e sulle sue conoscenze personali?
«Sono andata ad attingere da quel bacino che uso sempre: delle immagini o delle sensazioni molto forti depositate dentro di me. Alcune vengono scaturite dagli incontri nella vita reale, altri dopo la visione di certi film od opere d’arte . Ma ancora più spesso non so nemmeno da dove provengono».
“Materiali “ è un testo dedicato alla tragedia della donna moderna.
«Più che alla situazione della donna moderna ho pensato alla condizione dello straniero in generale, di un essere umano a prescindere dal sesso, sradicato, illuso e in difficoltà. A tutte le persone che hanno lasciato la loro patria, i loro affetti, il calore a rincorsa di un sogno che si è rivelato un incubo. La questione femminile in questo caso per me arriva più come una conseguenza».
Come è stato interpretare un testo completamente privo di punteggiatura?
«E’ stato difficile e non solo per la mancanza di punteggiatura. Soprattutto all’inizio, mi ostinavo a costruire un percorso logico il quale, però, non stava in piedi. Le parole non me lo permettevano, ma soprattutto perché nella prima e nell’ultima parte tale percorso non esiste proprio. Il regista continuava a ripetermi di lavorare per frammenti e sovrapposizioni di parole e immagini, di non cercare di spiegare ma di illustrare. Dovevo riuscire a stare completamente dentro quest’immagine densa, con onestà e senza riserve, ma dovevo evitare di immedesimarmi. Dovevo mantenere le distanze. All’inizio ero convinta che fosse impossibile, che non si poteva recitare in questo modo. Alla fine invece credo di esserci riuscita. Mi sento molto coinvolta e nello stesso tempo libera di uscire dal personaggio in qualsiasi momento. Come se fossi partecipante e osservatrice nello stesso tempo».
Questa Medea per lei è più una sacerdotessa o una vittima?
«Beh, è un bel dilemma. Credo che è più una vittima. Una vittima di se stessa».
E’ la prima volta che ricita nuda?
«Sì».
E quando Rifici glielo ha proposto come ha reagito?
«Forse anche in virtù della conoscenza tra noi due, mi sono subito fidata del fatto che fosse necessario e che non fosse una provocazione. Anch’io l’ho sentita come la cosa giusta, naturale, per cui non ho avuto alcun problema a spogliarmi. A dire il vero, ci sono stati dei tentativi con i costumi. Ma niente funzionava. Tutto appariva superfluo. Quando mi spoglio non penso al mio corpo. Lo sento come uno strumento per il messaggio che devo trasmettere».
Sembra che questo spettacolo le richieda un grande dispendio di energia.
«Infatti, riuscire a mantenere una grande tensione dall’inizio alla fine è molto faticoso. E non solo quando Medea si lascia andare, ma soprattutto nei momenti di profondo silenzio.
Il regista mi ha chiesto di iniziare lo spettacolo più possibile vuota e di essere disponibile per compiere un viaggio di parole. Anche questo svuotarmi richiede da me molta energia. Perché essere vacui in questo caso non vuol dire essere assenti. Anzi, bisogna essere molto presenti, ma liberi da tutte le emozioni personali».
Riesce a ricaricarsi?
«Ho dovuto sospendere quasi tutte le mie attività quotidiane. Ho rinunciato quasi al telefono, alle visite di amici e parenti e a tutte le mie attività sportive. Non mi sento di arrivare allo spettacolo dopo aver già fatto tante cose durante la giornata. Non me lo posso permettere».