Teatro

Mariapaola Tedesco: “Ora so cosa vuol dire perdere un figlio”

Mariapaola Tedesco
Mariapaola Tedesco © teatro.it

La giovane attrice, che interpreta la madre coraggio ne “La voce di Peppino Impastato”, racconta di come è passata da una laurea in biomedicina al palcoscenico.

Precisamente tra una perfomance e l’altra – appena terminato lo spettacolo pomeridiano e in attesa della replica straordinaria fissata per la sera stessa - Mariapaola Tedesco accoglie il pubblico che vuole parlare con lei, per scambiare due parole, esternare appassionati e sentiti complimenti, osservazioni, domande, indotti dalla curiosità di conoscere più da vicino questa giovane attrice che ha commosso la sala del teatro Libero di Milano con “La voce di Peppino Impastato” che la vede protagonista, insieme al collega Pierpaolo Saraceno.

Interpreta Felicia Impastato, madre del giornalista ucciso dalla mafia siciliana nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978. Accoglie infine anche noi, con un sorriso aperto e gioviale.

Chi è Peppino Impastato per Mariapaola?
Peppino Impastato è un semplice ragazzo che, però, con la sua forza e il suo coraggio è riuscito a diventare un eroe, un esempio per tutti.
Mi emoziona ogni volta parlare di Peppino e di quello che ha fatto; non è da tutti, quel coraggio. È un esempio da conoscere – perché c’è chi non lo conosce – e da ricordare, non solo il 9 maggio (ricorrenza della morte, ndr), ma anche un po’ ogni giorno.

Perché avete deciso di incentrare lo spettacolo sul rapporto-confronto madre e figlio?
Peppino, è vero, ha avuto il suo coraggio e la sua forza, durante la sua breve vita, ma, allo stesso tempo, è importante far vedere come la madre abbia avuto altrettanto coraggio, dopo la morte del figlio. Non era facile a quei tempi. Si era detto, difatti, che la morte di Peppino fu un atto terroristico e quindi una madre, non perché volesse meno bene al figlio, ma, semplicemente, non avendo tanto coraggio, avrebbe potuto anche starsene zitta.
Abbiamo voluto così mettere in evidenza quello che è stato un fiore d’acciaio, il coraggio di questa donna, che non ha accettato questa sentenza, bensì ha lottato fino alla fine dei suoi giorni, affinché si mettesse in luce il fatto che il figlio era morto per mano mafiosa. E quindi lo spettacolo si struttura in una sorta di flashback da un lato e nel presente dall’altro.
Ci teniamo a far vedere, oltretutto, che, in fondo, madre e figlio erano uguali: entrambi coraggiosi.


Data la sua giovane età, quali difficoltà ha riscontrato nell’interpretare una signora in età avanzata nonché madre? Ha dovuto lavorare su qualche aspetto particolare per rendere la performance più realistica possibile?
Interpreto, sì, la madre di Peppino, perché utilizzo anche quelle che sono state le sue parole, però mi vedo di più come dolore materno, non madre, che quindi non ha età, ma che si esprime attraverso le parole della madre. È stato complicato perché, non avendo figli, posso solo immaginare cosa si provi. Per fare questo, a parte vedere dei video della mamma di Peppino e studiarne la storia, ho osservato molto e ho parlato a lungo con delle madri che hanno perso i loro figli. In quelle occasioni, ho avvertito sicuramente, a livello empatico, sofferenza e dispiacere; dall’altro lato, da attrice, ho dovuto distaccarmi un po’ da quella situazione umana, per poterle osservare meglio.
Ho osservato i gesti, lo sguardo, a volte perso nel vuoto, a volte invece alto e fisso come se ti volesse interpellare: “oh, ma capisci quello che sto provando?”. Poi, tutto questo l’ho fatto mio, l’ho personalizzato in qualche modo, e dunque questo insieme composto da studio, tecnica, empatia, dolore, mi è servito per arrivare a un’interpretazione comunque spontanea, vera, che non sia un cliché, una cosa artefatta o troppo finta.

Nell’espressione del dolore, qual è il peso specifico rivestito dalla voce? E in che misura la vocalità può tramutarsi in una forma espressiva di un’emozione?
Da un punto di vista tecnico, c’è un lavoro sull’impostazione della voce. È anche vero, del resto, che quando subentrano il dolore e l’emozione, come nell’ultimo monologo, la voce cambia. Questo vale per chiunque, quando siamo particolarmente emozionati. Essendo il nostro teatro molto naturale e spontaneo, di pancia, è anche bello che si avverta questo cambio di voce che avviene spontaneamente, perché si tratta di una donna che sta raccontando un momento delicato. Dunque, se ti viene da piangere, puoi anche bloccarti.
Mi è successo di andare in scena e, mentre parlavo, che il naso mi colasse (non avevo fazzoletti), nonostante ciò, io continuavo. Il bello è anche questo. Chiaramente nella spontaneità c’è comunque una tecnica, perché se ti fai sopraffare da quel dolore e ti si chiude la gola, non riesci nemmeno a parlare; da attrice, invece, devi esplicare quel monologo. È una questione di studio, di prove e di esperienza. Si giunge poi al punto in cui sei in grado di lasciarti andare alla tua emozione da attore di farla vivere e scorrere, quell’emozione, nondimeno poi c’è il famoso terzo occhio, che ti controlla, e che non ti fa andare in overacting.

Si è confrontata con personaggi femminili apparentemente eterogenei e distanti tra di loro, da Medea a Salomè, e ora con Felicia Impastato. È ravvisabile una sorta di filo conduttore o una caratteristica comune a tutti?
Sono in realtà personaggi un po’ diversi tra loro. Nel preparare il ruolo di mamma Felicia, non ho pensato a questi miei ruoli precedenti. In Medea, per esempio, c’è una storia completamente differente, lo stesso dicasi per Salomè.


Visto che ha alle spalle un percorso di studi afferente alla biomedicina, come le è capitato poi di appassionarsi e dedicarsi al teatro?
Sono nata con questa passione, con questo amore. A volte, tuttavia, in quella fase della vita, dici “sì, amo il teatro, però intraprendo anche un percorso universitario”. Percorso di studi che comunque mi è piaciuto; anche l’aspetto scientifico mi affascina.
Quando mi sono laureata, nel momento in cui dovevo mettere anche in pratica ciò che avevo studiato all’università, ho detto “mi sa che questo non fa per me”. Proprio da lì ho iniziato a studiare bene, andare all’accademia, studiare teatro, e da allora non ho più smesso, mi sono detta: “è questo quello che voglio fare, perché io sul palco mi sento viva”. È la mia vita, e ci metto tutta la passione e l’amore del mondo, oltre a tantissimo impegno. Fondamentalmente è un amore, quello per il teatro, che c’è sempre stato, anche se, in qualche modo, represso all’inizio, ma, come si dice, se un amore è vero, prima o poi, ri-esce e non ce la fai più a trattenerlo.

La sua formazione attoriale e i suoi studi sui personaggi che interpreta incidono sul suo modo di guardare e analizzare i rapporti umani, comprese le relazioni che lei stessa intreccia con gli altri? Se sì, in che modo?
Penso di sì, che incidano, ma forse si tratta di qualcosa che vale un po’ per tutti, anche per chi non fa l’attore. Io, per esempio, osservo molto, ma sono anche una persona normale [sorride, ndr]. Se ho dei rapporti al di là del teatro, dell’arte in generale, questi sono rapporti sinceri, spontanei. Una mia caratteristica personale sta nella curiosità d’osservare molto ogni persona; anche semplicemente se sono in metro o sull’autobus e c’è qualcosa che mi colpisce, io la osservo, la immagazzino, perché magari un giorno, potrà diventare uno spunto per un personaggio. Magari io mi ricorderò di quella persona, seduta, in quel modo, che faceva un determinato gesto, e magari la farò confluire in un personaggio.
Mi è successo, di parlare con una persona che non conoscevo bene personalmente, e che aveva un modo di parlare particolare. Quando, in seguito, ho dovuto studiare un personaggio, mi sono chiesta “ma come posso fare?”, ecco che mi sono ricordata di quella persona e di quel modo di parlare, che, a quel punto, ho utilizzato per il mio personaggio. Per un artista credo sia fondamentale questo, ossia osservare tantissimo, perché ogni cosa può rivelarsi uno spunto, per poi reimmetterlo nel tuo personaggio in scena, giocando a personalizzarlo e ad approfondirlo.