Massimo Cotto parla al Circolo dei Lettori di Torino del suo spettacolo teatrale, Chelsea Hotel.
Massimo, potresti descriverci a tuo modo Chelsea Hotel, lo spettacolo che hai scritto ed interpreti?
“Lo faccio volentieri perché Chelsea è un prodotto a cui tengo molto. È una forma di teatro un po' strana perché è una via di mezzo tra un reading, cosa che non è assolutamente, così come non è prosa e non è un concerto. È uno spettacolo di affabulazione musicale dove sono io sul palco e racconto in dieci momenti dieci storie accadute in quel mitico luogo che è il Chelsea, al 233 della ventitreesima strada a New York. Con me c'è Mauro Ermanno Giovanardi che canta le canzoni di cui ho appena parlato, accompagnato da Matteo Curallo. Nell'insieme non è solo un grande affresco di un periodo irripetibile, dove si viveva di arte, spero fuor di retorica e metafora, ma dove la musica era veramente al centro della vita di tutti noi".
Perchè hai scelto questo stile ibrido di narrazione?
"Perché non sono un attore, la recitazione presuppone anni di studio e onestamente non mi interessa. Nel senso che quello che mi interessa è portare avanti il principio di tutte le espressioni artistiche, la musica è più immediata, è la capacità di raccontare grandi storie. Vere oppure anche inventate, l'importante è che catturino la tua immaginazione. Si dice spesso che la parola, vera protagonista dello spettacolo, una volta pronunciata muoia. Io credo che invece, una volta pronunciata viva perché incontra altre persone che l'hanno recepita e si trasforma in qualcosa di diverso".
Parlando ancora dello stile di Chelsea, è possibile che nella scrittura del testo tu ti sia ispirato alla tua esperienza radiofonica?
"Credo di si perché chi ha provato la radio non la abbandona: chi ha provato l'ebbrezza e l'eccitazione di vedere quella luce che si accende e tu sei da solo senza nessuna mediazione non cerchi altro. È li nell'etere che trovi la tua lampada di Aladino. Credo che la radio sia senso e rispetto del ritmo e ricerca ed eliminazione di qualsiasi cosa si frapponga tra te e l'ascoltatore. Mentre in tv se succede qualcosa o ti manca la parola puoi spostare l'inquadratura, in radio non lo puoi fare. O funzioni o non funzioni. Come i bambini: o piaci o non piaci".
Il pubblico come recepisce questo stile ibrido?
"Sorprendentemente bene. All'inizio dicevo a Mauro Ermanno Giovanardi che ci saremmo trovati di fronte alla malinconia dei teatri semivuoti. Avevamo dubbi anche sulla composizione del pubblico, chi verrà a trovarci? Oggi, dopo tre stagioni ed una trentina di teatri toccati, posso dire che il 25% è composto da amanti della musica rock, che sanno tutto quello di cui parliamo mentre il resto è composto da persone che vengono a vederci per curiosità o che hanno voglia di farsi suggestionare dalle storie. Alla fine quello che conta non è la bravura mia o di Mauro, ma la storia di per sé".
Alla fine tutte queste storie si possono considerare gossip. Perché secondo te la mente umana è così affascinata da questo tipo di storie rispetto alla storiografia classica?
"Attualmente credo che il pubblico sia attratto da storie che sfociano nella favola. L'informazione a getto continuo ha alterato la scala di valori. Quando ero un ragazzo, i dischi li ascoltavo centinaia di volte. Ora non c'è nessun disco che ascolto così tanto, nemmeno tra gli artisti che amo di più. Quindi quando incontri qualcuno o qualcosa che ti riporta ad un vecchio modo di raccontare, senza nessuna nostalgia, ti sembra quasi di aprire una porta che non aprivi da tanto tempo ed allora diventa interessante restare in quella stanza dove magari c'è poca luce, ma quella che c'è ha un taglio particolare sul tuo volto".
Ascoltando quello che dici mi viene da domandare, banalmente, ma non c'è nulla di pari al rock classico?
"Non è vero. Oggi si fa grande musica, solo si fa nelle cantine e non va nelle classifiche. Credo che tutti abbiano colpe: i ragazzi perché credono che il successo non sia il coronamento del lavoro fatto, ma l'unico fine da raggiungere e che non pensano altro che la televisione sia un fine per il successo e non un mezzo. Le case discografiche che hanno smesso di sguinzagliare direttori artistici in giro per le città e scoprire davvero dove si fa grande musica e poi tutto un mondo in crisi: ci sono meno soldi e quindi meno salute. La musica non è morta, ma è cambiato il modo di fruirne: una volta facevi i tour per promuovere i dischi ora è il contrario, perché solo nei tour l'artista riesce a generare utili".
Ultima domanda: perché in un momento di crisi come questo dovremmo vedere Chelsea Hotel?
"Se non avete di meglio da fare, venite! Se volete fare un tuffo in un mondo di cui avete sentito parlare, allora forse Chelsea Hotel è quello che fa per voi, al contrario di molte rappresentazioni di cui si conosce la trama, di Chelsea Hotel non si sa la trama. Non vuol dire che piaccia, ma è qualcosa di nuovo! Come dice Battiato: “Vi auguro di avere dalla vita quello che non vi aspettate, perché pensiate a quanto è bello lasciarsi sorprendere!”