Prendi un attore, prendi un teatro, prendi uno spettacolo cult. Tutto uguale, tranne il fatto che nel mezzo ci sono state 1200 repliche in tutta Italia. L’intervista a Maurizio Micheli, che ci racconta anche di quando disse no a Squarzina…
Uno spettacolo di enorme successo, scritto da Umberto Simonetta e Maurizio Micheli, che debuttò proprio sul palco del teatro Gerolamo di Milano. Nel mentre, il Gerolamo ha chiuso per trent’anni, fino al restauro. Ma oggi, come allora, l’attore in scena è sempre lui, Maurizio Micheli, che veste i panni dello scalcinato attore Fabio Aldoresi, costretto ad esibirsi tutte le sere davanti a un pubblico bifolco, mentre nel camerino sogna di svoltare e di diventare famoso.
Lo spettacolo torna a Milano in occasione del 150° compleanno del teatro Gerolamo per tre repliche: il 9, 10 e 11 marzo.
Un ritorno sul luogo dove tutto è iniziato. Te la ricordi la prima dello spettacolo?
Come se fosse ieri! Era il 15 novembre 1978, e il teatrino era pieno zeppo. C’erano Paolo Grassi e la moglie Nina Vinchi, i fondatori del Piccolo Teatro e andò benissimo. Il giorno dopo, però, venne poca gente, e restammo delusi. Poi, il 17 novembre uscirono le recensioni dei critici. Quando svoltai da corso Vittorio Emanuele per entrare in piazza Beccaria, vidi che c’era una fila lunghissima di persone. Pensavo che fosse una manifestazione. Invece era la gente che era accorsa davanti al teatro dopo aver letto i giornali.
In cosa si affina uno spettacolo in tutto questo tempo?
Innanzitutto, quattro decenni in più sulle spalle: sono più vecchio e forse più saggio, quindi ho carpito le mutate esigenze del pubblico. Per esempio, ci sono quelle cose che dico ancora, ma in misura ridotta. La gente ha meno pazienza, bisogna stringere, per cui ho asciugato di dieci minuti. E comunque ogni volta il pubblico cambia ed è diverso da città a città: col tempo capisci dalle loro risate e dalle loro reazioni dove devi accelerare e dove puoi respirare.
Ma in cosa è cambiato il pubblico, dal tuo punto di vista?
Ahimé, si interessa molto meno, è meno preparato. Il ruolo della TV, che volenti o nolenti ci fa compagnia la sera dopo una giornata di lavoro, è quello che è… si tratta di una TV che spinge verso il basso, sia per gusto che per scelte. E così il livello del pubblico, anche di quello che va a teatro, peggiora di conseguenza. Poi siamo sempre al solito punto, che vale per tutto, non solo per la comicità: è la TV che deve scegliere il livello delle cose che propone o è il pubblico che deve cercarsi cose di livello?
La comicità è difficile. Cosa serve per far ridere oggi?
Ah, se lo sapessi! (sospira, ridendo, ndr). Serve innanzitutto essere credibili, entrare in contatto con il pubblico e avere i tempi giusti. Sta tutto nella capacità di rapportarsi e nello stabilire un contatto empatico. Poi indubbiamente la comicità è cambiata: i comici che la gente è abituata a vedere in TV sono diversi da quelli di una volta. In generale si ride per la battuta gretta… ma è comicità, questa?
In quest’ultimo periodo hai portato in scena tre spettacoli diversi, più o meno contemporaneamente. Ti è mai capitato di andare in confusione e di perdere la memoria sul palco?
Eccome se mi è capitato! Ma nel monologo è più facile uscire dall’impasse: dici un’altra cosa, torni indietro, aggiusti. Il pubblico non conosce il testo, per cui puoi rimestare un po’ il tutto finché non recuperi. Il segreto è uno solo: non fermarsi mai: se taci, ci caschi e la gente se ne accorge. Nella prosa con altri attori in scena il buco di memoria è più difficile da gestire, perché l’altro non capisce subito cosa stai dicendo e devi iniziare a far gesti e ammiccamenti per fargli capire che ti sei perso… a volte il risultato è comico anche per noi sul palco.
Da spettatore, cosa non ti piace del teatro di oggi?
Mi annoia. Nel 90% dei casi vedo lavori che non mi coinvolgono. Eppure ne ho viste di cose in tanti anni… e se mi annoio io, che sono del settore, figurati il pubblico…
Un rimpianto professionale?
Oltre al cinema – che avrei voluto fare di più - c’è un ruolo che ho rifiutato e di cui ancora mi pento. Parecchi anni fa Luigi Squarzina – che fu anche il mio relatore della tesi all’Università – mi propose di fare La coscienza di Zeno. Non ricordo bene il motivo, ma ero titubante: c’era qualcosa, al tempo, che mi impediva di dirgli di sì. Lui insistette: “Dai, facciamolo finché son vivo!”. Insomma, alla fine non accettai, ma me ne pentii amaramente e Squarzina ovviamente se ne rese conto. Tanto che, ogni volta che ci vedevamo, mi diceva ridacchiando: “Vedi? Hai fatto male a non farlo!”.
Immagina di essere in un’aula al posto di Squarzina, davanti ad aspiranti giovani teatranti. Quali tre autori consiglieresti loro come punto di partenza?
I tre imprescindibili sono Molière, Fedro e Pirandello. Aggiungo anche un quarto che non deve mai mancare: Neil Simon.