Noto come giornalista, scrittore e saggista italiano, Oliviero Beha ha un aspetto gradevole, voce tranquilla, sguardo attento e sornione. Chi guarda la televisione con attenzione lo avrà notato spesso nel ruolo di opinionista, specie su argomenti sportivi ma non solo. Ha presentato a Sesto San Giovanni, nello Spazio Mildel Tieffe Teatro, una prima assoluta: Italiopoli. Lo spettacolo è tratto da un libro di Beha e lui in persona lo racconta, aiutato da Paola Cerimele e Daniela Coelli, che creano intermezzi capaci di sottolineare con colori, parole, musica e gesti il senso forte dei concetti espressi, che partono dal ricordo di temi trattati trent’anni fa da Pier Paolo Pasolini e tuttora attualissimi. Qui vengono riproposte alcune delle denuncie a cui non ebbe mai seguito alcun risultato etico né morale.
Pasolini è stato barbaramente assassinato e le sue parole, per quanto considerate ‘cult’ da una ristretta minoranza, non sono penetrate a risvegliare la società. Per questo Oliviero Beha cerca di scuotere le coscienze parlando di Pasolini e pure di sé stesso, ennesima vittima di un oscurantismo verso le idee e la progettualità sensata, che ha portato all’attuale imbarbarimento generale. Parla volentieri, Oliviero, nonostante lo spettacolo del 23 gennaio scorso sia stata una data unica, prima mondiale e immediatamente relegata tra gli spettacoli ‘pericolosi’. Invece, per i pochi che lo hanno visto, è stato bellissimo, coinvolgente e, per quanto talvolta deprimente, ha offerto le ragioni per ribellarsi allo status quo di cieca rassegnazione in cui sembra piombata la società italiana.
Perché hai scelto di esprimerti a teatro?
Sono un giornalista che fa un minuto di commento di sportiva al tg3 una volta la settimana. Forse non è il modo di essere usato. Fa ritenere truffaldinamente che chiunque possa esprimersi mentre non è vero. Ci sono i libri, è vero, ma sono lenti: credo di aver venduto Italiapoli forse 50 mila copie in 2 anni. Quindi non è un ghiribizzo il fare teatro perché non solo mancano i mezzi di comunicazione, ma perché il teatro offre la parola calda, la cosa più vicina alla radio, che ho fatto anni fa. Il teatro rappresenta per me la quintessenza del rapporto con gli altri.
Per te è stata la prima volta?
Sul palcoscenico personalmente sì, è la prima volta. Ho cominciato l’anno scorso con grande preoccupazione, nessuno mi dava retta ma volevo fare una pièce scritta da me intitolata Volevo essere Pasolini.com, che puntava più su Pasolini che sull’italia. Ha debuttato a Le voci dell’Inchiesta, rassegna su teatro, cinema e altre arti a Pordonenone nel 2007. Ho avuto 10 minuti di applausi: mi hanno fatto pensare che potevo calcare i palcoscenici senza farmela sotto.
Direi che questo ìItaliopoli’ è stato proprio bello, anche grazie forse a una buona regia. L’hai voluta tu?
La regia di Beppe Arena mi ha seguito fin qui. Volevo dare un’idea drammaturgia diversa, non come fa Travaglio coi suoi monologhi, per provocare uno straccio di reazione nel cuore, nel fegato e del cervello delle persona. Per questo ci voleva un abbozzo di teatro, anche se manca un produttore, un allestimento come Dio comanda e così via.
Da quanto tempo non ti riesce più di comunicare, pur essendo un giornalista?
Se hai i mezzi di comunicazione comunichi, se no no. Io finché avevo la radio era tutto ok: ho scritto testi per il teatro che andarono in scena, come Donne in carriera del 1985 circa e Il gioco dell’oca, in scena al Teatro delle Vittorie di Roma, poi per il Teatro Asti, con Corrado Tedeschi protagonista, ho scritto Steatro ovvero la presa di Babilonia. Poi è sparito il produttore con la cassa, sul serio, non s’è più visto. C’era anticipata tutta Tangentopoli, l’avevo scritto nel 1992! Io porto Pasolini e Italiopoli perché la vedo la brutta, perché tutto il paese è di pasta frolla. Il mio vero problema non è come fare ad andare in scena in modo decente, ma come farlo con un produttore che tutt’ora non ho.
Hai sempre parlato di queste cose nelle tue opere?
Quello che scrivevo negli anni ’80 non aveva nulla a che fare con quello che scrivo adesso. La novità per me è che ora scrivo per me, prima lo facevo per il teatro.
Ti presenti bene in scena. Hai studiato per farlo?
No, non ho mai studiato recitazione, sto sul palcoscenico per naturale predisposizione, voglia ricomunicare. Ma da anni a Roma dove vivo frequento Giorgio Albertazzi, Franco Zeffirelli e tanti altri. Loro mi conoscono come poeta, non come giornalista.
E tu cosa ti senti di più?
Io mi sento a malapena me. Certo, non sono un giornalista tradizionale, anche perché di questi tempi non si può più fare.
Beh, come darti torto… Da chi vorresti farti sentire?
I giovani sono i miei principali interlocutori. Il mio punto di vista si rivolge ai giovani, sono loro che hanno un vuoto davanti, non io che ho 60 anni e vivo pasolinianamente. Poi c’è il problema del mio grande successo alla fine degli
Anni ’80 in televisione: dopo è arrivato il momento del grande freddo e tanti giovani non sanno neppure chi io sia. Amici dei miei figli dicono loro: “Lo sai che i miei genitori sanno chi è tuo padre, ma che fa..?”
Questo di distura?
Penso che mi siano stati scippati i contatti per anni, è stato inibito il rapporto con i giovani per 15-18 anni. Ma in tutto quel periodo mi hanno sommerso, dopo i Va’ pensiero con Andrea Barbato di fine anni ’80 in confronto ai quali Travaglio potrebbe impallidire. Io non sono contro Travaglio ma certo lui non è mai stato censurato in prima pagina, e ne sono contento per lui, mentre a me m’hanno fatto a pezzi, in sordina, senza che nessuno ne parlasse. Io ho scritto un saggio, una trilogia della censura, tre libri scritti in questi anni e mai pubblicati.
Davvero?
Questo Paese è un posto in cui la libertà di stampa è stata fatta a pezzi, letteralmente. La censura è quando ti affogano in silenzio.
Molto peggio di quanto accadde a Santoro, tanto per dire?
Santoro è stato tre anni da Berlusconi, fatto di cui molti si dimenticano, poi al Parlamento Europeo. Io non ho nessun partito alle spalle, ci sarà una differenza o è tutta la stessa cosa? L’Unità ha fatto fuori me. Io parlo di sport ma ho difeso la Forlo. E’ che non vogliono fastidi, pensano solo ai cazzi loro, ecco perché io non faccio nulla da tre anni. Io non faccio il cabaret.
Ascoltarti in Italiopoli però è spesso deprimente, lo sai?
Voglio che vadano a casa disperati… Io nei miei libri offro tentativi di soluzioni ma cerco di fare che in teatro gli spettatori presenti si sentano meno soli. Io ho insegnato all’Università con 1200 studenti ad Architettura, a Valle Giulia, parlando di questo cose e i giovani hanno un qualcosa nella loro biologia per sopravvivere.
Cosa dovremmo fare?
Basta porsi il fine di farsi una risata. Io dico è che ci hanno rubato l’allegria, non la finta risata, il ghigno televisivo. L’allegria sincera manca.
Per questo ti riferisci a Weimer?
Weimer all’amatriciana, come dico io, è un pezzo del Paese dove si è fatto un pessimo uso della politica. E’ dove poi è nato il nazismo. Noi siamo già in una dittatura, di mancanza di valori, del nulla, ci siamo già; la dittatura del nulla. C’è da prendere consapevolezza dello stato delle cose e ricostruirsi, come accadde dopo la guerra, come nel ’45, per uscire dall’inciucio.
Abbiamo termini di paragone?
Queste cose sono già successe negli Stati Uniti in modo quasi analogo e ora negli USA stanno abbandonando la televisione e forse esiste un antidoto nella natura dei giovani. Non tutti guardano il Grande Fratello o l’Isola. Non c’è niente come l’istinto di conservazione, ridotto ai minimi termini. Il paradosso è che noi abbiamo una cosa: la reazione, per affrontare la situazione del Paese. Ecco: bisogna reagire. Siamo messi talmente male da essere costretti a reagire.
Sei certo che possa accadere ancora?
Forse a Milano o Roma queste cose non si notano, ma se vai dove ci sono cose reali, nella zona del no-tav, a Vicenza, risono eccome. E ti assicuro che mi incazzo per non riuscire ad andare in questi posti, dove i giovani escono incazzati per la loro dignità personale e collettiva. Ma tutto ciò è politico! Italiopoli significa il peggio dell’Italia, tangentopoli, vallettopoli, ma poli è anche il suffisso della politica, vedi che percorso impazzito faccio. Ci hanno fottuti con la destra e la sinistra, facendoci credere che l’unica strada possibile fosse quella di sinistra, ma che senso ha senza una destra? E ora tutto è solo finzione.
Teatro