Nato a Napoli sotto il segno del Cancro, con la musica ed il teatro nel sangue, Pietro Pignatelli è uno degli attori più poliedrici nel panorama teatrale italiano. Lo abbiamo applaudito nei grandi musical di matrice internazionale come “Grease” e “Il pianeta proibito” (accanto a Lorella Cuccarini), in quelli nostrani (lo ricordiamo come il primo interprete di Geppetto nel “Pinocchio” firmato dai Pooh) e nel teatro di prosa d’autore, dal ciclo “Museum” ideato e diretto da Renato Carpentieri, a “Vincent”, sulla drammatica storia di Van Gogh a “Il Poeta volante”, sulle eroiche gesta antifasciste di Lauro De Bosis, fino a ricoprire il ruolo dell’accusatore di Oscar Wilde, l’avvocato Carson, nello spettacolo sul primo dei processi per omosessualità subiti dallo scrittore. In questi mesi, invece, Pignatelli è il “terribile” Capitan Uncino nel musical “Peter Pan”, accanto a Manuel Frattini, con le trascinanti musiche di Edoardo Bennato,
Com’è stato interpretare il rock di Bennato, per te abituato ad un repertorio più melodico dei musical ad impianto tradizionale?
Diciamo che si è trattato un ritorno al rock, essendo anche “Il Pianeta Proibito” un musical incentrato su questo genere musicale. Devo dire che in questo caso il rock che contraddistingue Capitan Uncino, è sicuramente di grande impatto per il pubblico, e lo dimostra l’accoglienza con cui viene salutata da grandi e piccoli la mia esibizione, una vera e propria acclamazione che mi dà il polso anche del calore che la musica di Bennato, ed un po’ la mia esibizione, riescono a trasmettere.
Capitano Uncino è il nemico giurato dell’eterno fanciullo Peter Pan. Come sei entrato in questo ruolo così antitetico alla natura di un’artista?
In effetti io mi sento molto più Peter Pan che Uncino, ed è per questo che, in un certo senso, il mio apporto a questo ruolo è stato quello di evidenziarne, in accordo con il regista Maurizio Colombo, gli aspetti bambineschi di questo “cattivo” goffo e capriccioso.
Non c’è alcun dubbio che tu sia uno dei più preparati artisti italiani nel Musical, un genere che in questi anni ha avuto un grande successo, ma che qualcuno ravvisa già in parabola discendente. Quali sono, secondo te, le ragioni di questa che sembra essere una crisi?
La crisi appartiene, ahimè, a tutto il teatro, e, nel caso del Musical sicuramente ha il suo peso la saturazione delle proposte. Al di là dei grandi progetti di matrice internazionale, oramai fioccano Musical ispirati a tutto, dalla letteratura alle biografie di personaggi famosi. Io credo che in Italia bisognerebbe tener conto della nostra tradizione teatrale per ritrovare un’identità più credibile, ovvero la prosa e, nel teatro musicale, l’operetta.
A proposito di prosa, a maggio tornerai ne “Il primo processo di Oscar Wilde” diretto da Roberto Azzurro, a vestire i panni dell’avvocato Carson, il grande accusatore dello scrittore irlandese, interpretato dallo stesso regista. Da un lato quindi i grandi musical, mentre dall’altro piccole produzioni con spettacoli di impegno civile, come anche “Il poeta volante” ed il bellissimo spettacolo su Van Gogh. Come fai a conciliare due tipi di spettacolo così differenti?
Io ritengo molto grandi quegli spettacoli apparentemente piccoli, Ivano Fossati ha scritto che il “il lavoro dell’artista è un mestiere piccolo”. Io penso che in quella “piccolezza” ci sia una “grandezza” che va ricercata dall’artista e quindi dall’attore. In spettacoli come quello dedicato a Wilde io trovo una difficoltà enorme rispetto alle interpretazioni all’interno di grandi carrozzoni come quelli dei musical. E per me è molto eccitante. Il bello del mestiere è anche questo: saltare da una situazione all’altra, un po’ come gli omini dei videogames che devono saltare da una piattaforma grande ad un’altra più piccola. Tutto ciò lo trovo molto stimolante, nonostante le difficoltà. L’importante è non essere identificati con etichette che alcuni ruoli ti lasciano. Per me è capitato con “ ‘o russo” di “Scugnizzi”, e prima ancora con Pietro dell’”Albero azzurro”, anzi, molti mi fermavano per strada chiamandomi Dodò, il nome del pupazzo con cui interagivo nella trasmissione televisiva per ragazzi. Ma questo fa parte del gioco e ci giochiamo.
Dopo “0 Russo , Prospero nel “Pianeta proibito” e Capitan Uncino con Carson affronti ancora una volta un antagonista, un personaggio che perciò difficilmente trova empatia con gli spettatori che parteggiano in questo caso per Wilde. È difficile superare la barriera della simpatia nel proporsi al pubblico?
L’impresa di tirare fuori, non solo la tua, ma anche le negatività del pubblico è molto divertente, e straordinaria, soprattutto quando avverti quella sorta di odio da chi guarda lo spettacolo. Poi devo dire che la cattiveria di Carson è molto particolare, misurata, si mantiene su un equilibrio precario, per cui non devo mai fare troppo ma nemmeno troppo poco per riuscire a tenere energeticamente il pubblico. Come giustamente mi ha suggerito Roberto Azzurro, io parlo anche agli omosessuali presenti tra il pubblico, e devo far sorgere anche a loro il dubbio che Wilde sia stato davvero negativo in ciò che ha fatto.
Dopo Van Gogh e Lauro De Bosis un altro personaggio realmente vissuto. Che difficoltà provi ad interpretarli.
Tantissime. Nei personaggi di fantasia puoi mettere del tuo per interpretarli, mentre non lo puoi fare con quelli realmente vissuti, lì la ricerca si intensifica, per cercare di non inquinarne e quindi tradirne la personalità. È il dovere di un attore di non metterci troppo di suo, ma cercare di far rivivere per il pubblico ciò che realmente era il personaggio.
Com’è nato l’incontro con la musica?
Prima che con il teatro. Da ragazzo facevo parte di una band, i “Samarcanda”, con cui andavo a suonare nei locali, arrivando a fare fino a quattro serate a settimana, un vero lavoro che mi fece guadagnare anche dei soldi che mi consentirono di acquistare un’auto.
E con il teatro?
Ho cominciato, come tutti, a scuola, quindi col teatro amatoriale, finché non mi accorsi che non dormivo la notte per preparare la parte, mi recavo in biblioteca per documentarmi. Chiesi quindi a mio padre se mi avrebbe aiutato ad entrare in accademia, ma mi rispose di no. Quindi completai gli studi scolastici, per poi
Iscrivermi alla facoltà di Psicologia a Roma. Poi un bel giorno ho deciso di prendere in mano la mia vita e di seguire la formazione e quindi la carriera artistica.
Quali ritieni siano, invece, i tuoi padri artistici?
Sicuramente riconosco in Renato Carpentieri uno dei miei padri artistici: mi ha dato molto e mi ha messo anche molto in crisi, com’è giusto che sia perché si riconosca da soli la strada da intraprendere.