Diverse persone sono convinte che il teatro dei burattini e delle marionette sia un teatro esclusivamente per infanzia e che il burattinaio sia una persona “strana”, una specie di eterno bambino. Per scoprire se è vero siamo andati a trovare Paola Bassani, fondatrice, e da trent’anni direttrice artistica del teatro-laboratorio milanese “Mangiafuoco”.
«Nel mondo teatrale, la nostra è una figura indubbiamente particolare. Per quel che riguarda invece i burattini, storicamente sono stati un’attrattiva principalmente per gli adulti. Gli spettacoli erano specialmente di carattere politico, rappresentati durante le fiere o direttamente nelle piazze paesane. Non avevano nulla, tranne i pupazzi stessi, che sarebbe potuto piacere ai bambini. In tempi recenti, soprattutto con l’arrivo della televisione, il teatro di animazione è diventato un luogo dedicato all’infanzia, anche se ultimamente, sempre più spesso notiamo un crescente interesse verso il nostro teatro da parte del pubblico adulto. Non saprei se il fatto sia legato alla nostalgia del passato, a qualche fenomeno sociale oppure alla particolare forma espressiva che i nostri piccoli amici di legno, pezza e cartapesta possiedono...»
Da piccola le piacevano le bambole?
«Molto. Ne avevo tantissime, ma non avrei mai pensato che sarebbero diventate la professione della mia vita».
Quindi non è stato un sogno d’infanzia?
«In verità volevo fare l’insegnante. Frequentavo la facoltà di Pedagogia e l’arte teatrale m’interessava prima di tutto come strumento educativo. Fu così che mi iscrissi al seminario del teatro di figura organizzato dalla Civica Scuola d’Arte Drammatica del Piccolo. Successivamente il mio interesse per il teatro in quanto tale è andato sempre crescendo, mentre gli incontri con i grandi maestri burattinai Romano Danieli, Cesare Maletti, Sandro Costantini, Nunzio Zambello, Otello Sarzi hanno determinato la scelta del genere. Forse proprio l’incontro con Otello Sarzi è stato per me quello decisivo. Otello Sarzi è stato un maestro vero, un maestro molto generoso che ha lasciato in ogni burattinaio con cui ha lavorato una parte di sé, un maestro che ci ha svelato tecniche e invenzioni, ma, nel contempo, ha incoraggiato ciascuno a cercare una propria espressività artistica».
E’ vero che il burattinaio deve saper fare un po’ di tutto?
«Avere una buona manualità è indispensabile per un burattinaio. La quantità dei materiali con i quali lavoriamo ci costringe a imparare a fare tantissime cose, a inventare e ad arrangiarsi».
Quanti tipi di pupazzi esistono?
«Ce ne sono di diversi tipi. In Sicilia abbiamo i famosi pupi. Sono molto simili alle marionette con la differenza che al posto dei fili vengono usate delle stecche. La loro storia risale ai tempi cavallereschi per cui sono molto tradizionali: vengono vestiti sempre nello stesso modo e i soggetti che rappresentano sono sempre incentrati al racconto delle gesta dei paladini di Francia. Poi ci sono le marionette, che tutti conoscono, e, infine, i burattini di cui ne esistono due tipi: a guanto – per esempio le guarattelle napoletane - e a stecca, tradizionali o dai tratti sintetici ».
Perché lei ha scelto di lavorare proprio con i burattini?
«Per la loro spontaneità. La bravura di un marionettista si mostra soprattutto grazie alle sue capacità imitative, mentre il burattinaio, con il suo oggetto goffo che ha in mano, sempre va alla scoperta di forme e mezzi espressivi nuovi, a volte, inaspettati».
I vostri di che cosa sono fatti?
«Di tutto quello che ci viene suggerito dalla nostra fantasia: dal legno alla cartapesta, dalla paglia al materiale di recupero come tappi, ritagli di plastica e di cuoio, bottoni... Per “Radici”, per esempio, abbiamo usato proprio le radici ritrovate in riva al mare».
Li riutilizzate o per ogni spettacolo ne costruite di nuovi?
«Tranne in rari casi, per ogni nuovo spettacolo costruiamo dei burattini nuovi. Infatti, il nostro laboratorio ne è strapieno. Una volta era diverso. Il burattinaio tradizionale lavorava con una muta di burattini a cui, casomai, cambiava i vestiti. Per noi invece mettere in scena qualcosa di nuovo è soprattutto un lavoro di ricerca che ci dà una grande soddisfazione».
Come nascono i vostri spettacoli?
«Dipende. A volte le idee ci vengono nel corso delle rappresentazioni: capita che la reazione del pubblico ci spinga ad approfondire un certo l’argomento. A questo punto cominciamo a cercare un testo adatto oppure chiediamo a un drammaturgo di scrivercene uno nuovo. Dopodiché inizia il lavoro di studio, di analisi, di sperimentazione. Molti testi sono stati stesi o adattati per noi dal nostro grande amico Roberto Piumini. L’abbiamo conosciuto molti anni fa quando, da perfetto sconosciuto, ha bussato alla nostra porta per proporci un suo racconto. Ora è uno stimato scrittore e attore. Conosce bene i burattini e sa scrivere per loro».
Quanti siete in compagnia?
«Ormai da dieci anni la nostra è una compagnia a formazione variabile. I nostri collaboratori sono soci con i quali lavoriamo insieme da molti anni, ma ognuno di loro segue anche un percorso proprio. E’ stata una scelta dettata non solo da motivazioni economiche. Abbiamo visto che invitare di volta in volta le persone che svolgono anche altre attività artistiche, arricchisce la compagnia. Eleonora Parrello e Laura Valli sono burattinaie, ma sono anche danzatrici. Patrizia Borromeo, arpista, è impegnata nella sua attività concertistica, Max Vitali fa parte di una compagnia del teatro di strada e lavora molto con le figure».
Assieme a Francesco Caggio qualche anno fa avete pubblicato un libro dedicato al teatro per l’infanzia. Perché, secondo lei, è così importante fare il teatro per e con i bambini?
«Senza parlare dei suoi valori estetici ed educativi , il teatro è uno dei pochi riti che ci è rimasto. E i riti, come ben si sa, sono molto importanti per i bambini perché segnano il loro passaggio verso la vita adulta».
E’ vero che, più difficile in assoluto, è costruire gli spettacoli per i bambini dai 3 ai 5 anni?
«Direi proprio di sì. I bambini al di sotto di 5 anni sono molto spontanei e altrettanto esigenti. Non si vergognano di esprimere le loro emozioni e, se lo spettacolo non piace loro, lo fanno capire subito: cominciano a parlare, a piangere, a chiedere ai genitori di andare via».
Quanto tempo ci si mette per allestire uno spettacolo?
«Circa un anno. Ovviamente, non lavorando a tempo pieno. Capitano anche delle eccezioni. Per esempio, per mettere in scena “Il ragazzo col violino” abbiamo impiegato più di due anni».
Il momento preferito durante il lavoro?
«L’ ideazione del personaggio e la sua costruzione».
Non la regia?
«Mi sono occupata della regia di diversi spettacoli, ma, se devo essere sincera, preferisco affidarla agli altri, con tutte le difficoltà di trovare un regista giusto per un teatro come il nostro. La peculiarità del nostro lavoro richiede delle conoscenze specifiche e non permette di affrontarlo “a caldo”. Non è una questione di carenza di idee, ma della loro realizzazione pratica. Ci vogliono esperienza e studi che spesso mancano. E’ un discorso generale perché in Italia - a differenza di molti paesi dell’Est o anche della a noi più vicina Francia - a parte alcune compagnie, come, per esempio, la nostra, che organizzano corsi e laboratori, non esiste una scuola vera e propria che prepari i veri esperti del nostro settore».
Quale qualità particolare deve possedere un burattinaio?
«Non avere un ego spropositato. Perché il protagonista non è lui, ma il burattino. Tuttavia, ancora oggi, dopo trent’anni passati in mezzo ai burattini, continuo a stupirmi quando quei pupazzi, così goffi e grezzi nei loro movimenti, prendono vita nelle mani di un bravo burattinaio».
Ha un suo burattino preferito?
«Forse è il principe de “Il ragazzo col violino” di Roberto Piumini. Questo lavoro è stato una tappa importante nel nostro percorso in cui siamo riusciti a intrecciare fiaba tradizionale con poesia contemporanea, burattini con ombre e corpo umano, voce recitante con musica dal vivo e quella registrata. In tutta la sua apparente semplicità è uno spettacolo molto complesso. E proprio la ricerca di questa genuinità ha richiesto da noi – come ho detto prima - moltissimo tempo».
Nella sua carta d’identità che professione è indicata?
«Burattinaia. Quando all’anagrafe ho chiesto di scriverlo si erano rimasti molto sorpresi e volevano a tutti costi scrivere “attrice”, ma ho insistito».
Se la compagnia dovesse chiudere, cosa farebbe nella vita?
«Mi metterei a fare i burattini da sola, su ordinazione per spettacoli di altri. Credo che riuscirei da sola anche ad allestire e a condurre uno spettacolo. In questo periodo sto facendo un corso di massaggio shiatsu, ma non voglio farlo diventare una seconda professione. Lo vedo più come un hobby».
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