La difficoltà principale che si trova, a volte, nell’intervistare un artista è quella di creare con esso un rapporto che lo porti a fidarsi dello sconosciuto di fronte a lui che gli pone delle domande con un registratore, che diventeranno parola scritta. Con Roberto Azzurro questa difficoltà non c’è, perché siamo amici da tempo e spesso chiacchieriamo di teatro e di lavoro. Un’amicizia, la nostra, nata soprattutto grazie alle sue interpretazioni in teatro, alle quali assisto da anni, e quindi grazie all’ammirazione per il bravissimo artista che è. Appartiene alla mia generazione, Roberto, ha amato i miei stessi punti di riferimento culturali, ha lavorato con queglii attori e quei registi che io mi sono trovato spesso, anche e soprattutto prima di interessarmi di teatro come professionista, ad applaudire come spettatore innamorato dell’arte scenica. Attore, con Antonio Casagrande e Mario Carotenuto, quindi aiuto regista storico di Antonio Calenda, in spettacoli memorabili che hanno avuto come protagonisti attori quali Anna Proclemer, Gabriele Ferzetti, Pietro De Vico, Anna Campori, Pietra Degli Esposti, Roberto Herlitzka. Negli anni ’90, insieme con Paolo Coletta è stato protagonista di una memorabile stagione di grandi fermenti creativi che li ha visti lavorare in tandem come drammaturghi, registi e spesso come attori di spettacoli quali “L’Ironia ha sonno e chiede un caffè”, tratto dalle opere di Tabucchi, “Stoffa Q.B.”, “Il Giardino delle Delizie”, spettacolo indimenticabile per chi ha avuto la fortuna di assistervi, e “Scomparire a Tamatave”. Poi ancora regie, e un ritorno sulle scene come attore grazie alla collaborazione del regista Carlo Cerciello che l’ha scelto come protagonista di tre suoi importanti spettacoli come “Girotondo” di Schnitzler (per la cui interpretazione fu segnalato ai premi UBU), “Italietta”, sull’opera e la vita di Pier Paolo Pasolini e “Terrore e Miseria del Terzo Reich”, la cui interpretazione del Fuhrer gli è valsa critiche straordinarie e ben due premi. Da due anni Azzurro porta in scena, come regista ed attore, spettacoli essenziali, privi di scenografie e orpelli, puntati tutti sulla recitazione. Punte di diamante di questa scelta artistica “L’Arte di essere povero”, dall’autobiografia di Boni de Castellane e “Il Primo processo ad Oscar Wilde”, entrambi su drammaturgia di Massimiliano Palmese. E proprio in occasione della messa in scena di quest’ultimo spettacolo, in scena al Real Orto Botanico di Napoli nell’ambito della rassegna “Aggregazioni” curata da Ciro Sabatino per “Il Pozzo e il Pendolo”, e prima che lo spettacolo debutti ad Avellino il prossimo 3 agosto, che ci siamo incontrati per questa chiacchierata. Come dicevo la difficoltà non è quella di creare fiducia fra noi, ma forse è proprio la nostra amicizia che crea una sorta di strano imbarazzo per l’ufficialità dell’incontro, imbarazzo subito fugato grazie all’estroverso carattere del mio intervistato, che ci riporta ad una delle nostre consuete chiacchierate tra amici.
Hitler, Boni de Castellane, Wilde: cosa significa interpretare per la scena personaggi che hanno avuto una loro vita reale?
Intanto io aggiungerei anche un personaggio che ho interpretato qualche anno fa, in uno spettacolo la cui regia non era mia: lo spettacolo era “Italietta” dove ero Pier Paolo Pasolini. È da lì che è cominciato il mio approccio con i personaggi esistiti, ed è tremendamente entusiasmante, molto emozionante, perché ti fa sentire il senso vero del teatro che ti da la possibilità, per quella che è la durata dello spettacolo, di far rivivere una persona che non c’è più, non una persona immaginaria, come tanti personaggi teatrali o della letteratura, ma una persona realmente esistita.
Sia Pasolini che Wilde hanno pagato molto per la loro omosessualità. In che modo hai vissuto questo dramma personale in scena.
I due personaggi sono stati entrambi trasgressivi, rispetto ai conformismi e le regole delle società in cui vivevano, ma sono stati anche, chiaramente, del tutto diversi. Pasolini era un uomo tremendamente disperato, nel senso più profondo, tragico ed alto di quest’affermazione. La sua morte, al di là dell’ipotesi del complotto, lui l’aveva descritta in tutta la sua opera letteraria, come se avesse deciso come morire. Quindi ha vissuto fortemente, attraverso la sua vita artistica, la sua trasgressione, anche attraverso i suoi rifiuti: lui ha rifiutato la presidenza dell’ ENI, è stato cacciato dal Partito Comunista, e tanti altri atti politici, in senso lato ed in senso proprio. Wilde ha cercato di fare della sua vita Un’opera d’arte, come lui stesso diceva, e quindi era un personaggio in qualche modo fortemente contemporaneo, sembra quasi per certi versi un rockstar londinese degli anni 70. Pasolini l’ho affrontato, quindi, da un punto di vista tragico, più vicino al dramma. Per Wilde, pur partendo dallo stesso punto di vista, ho utilizzato la follia, perché una persona che arriva a dire le cose che egli ha detto al suo processo, in una situazione in cui ha rischiato ciò che poi è avvenuto, cioè la sua condanna ai lavori forzati, in modo così folle, così divertente ed esilarante, senza mai omettere nulla, ma semplicemente dicendo la verità in un altro modo, è una cosa che mi ha tremendamente suggestionato, e quindi lo spettacolo ha anche un esito divertente come fu il vero processo ad Oscar Wilde. Fondamentale è l’apporto di Pietro Pignatelli, straordinario attore, che interpreta l’antagonista di Wilde al processo, lo spietato Avvocato Carson.
Credi che Oscar Wilde abbia patito più per la sua trasgressione o per il suo amore?
Io credo che abbia patito per l’impossibilità del suo amore, ha incontrato una persona sulla sua strada che l’ha portato, come narrano le cronache, in qualche modo alla rovina, ma non tanto perché Alfred Douglas, il suo amato Bosie, fosse così maledetto, ma perché insieme hanno fatto una cosa dannosa per entrambi. L’impossibilità di realizzare quell’amore così alto e profondo allo stesso tempo l’ ha portato alla disperazione.
Hai avuto le più disparate esperienze in campo teatrale: dal teatro di tradizione a quello cosiddetto sperimentale, dal musical alle tue drammaturgie. È però da qualche tempo che ti sei dedicato ad un teatro asciutto, essenziale. Perché hai sentito questa necessità?
Perché il problema che mi sono sempre posto è quello dell’attenzione. Non credo che il teatro stia morendo, o sia addirittura morto, come sento spesso dire in giro. È un’arte che vive da 2500 anni e non credo che noi siamo così protagonisti della storia dell’umanità da essere presenti proprio nel momento in cui il teatro morirà: mi sembra davvero troppo autoreferenziale. Io ho sentito l’esigenza di dedicarmi a questo tipo di teatro perché credo che il pubblico, in realtà, si sia disinteressato, perché non è stato più considerato, credo che le grandi avanguardie storiche abbiano in qualche modo sì abbattuto fisicamente la quarta parete, come il Living Teather che permetteva al pubblico di salire sul palco ed agli attori di scendere in platea, però in qualche modo abbiano anche alzato un’altra parete troppo intellettuale per cui il pubblico non ha più compreso quello che veniva rappresentato, così si è allontanato, ha cominciato, secondo me , a sganciarsi dalla performance teatrale, perché disinteressato ed annoiato. Il mio lavoro dell’attenzione, lavoro fortissimo su cui cerco di applicarmi moltissimo, è rivolto, perciò, proprio al pubblico, perché venga coinvolto senza nessun artificio, nessun “effetto speciale”, che sia di scenografia, musica roboante, o effetti visivi, perché credo non ci sia effetto speciale più forte, più soggiogante di un attore che reciti in scena in maniera interessante dei testi interessanti.
Quest’attenzione è stata effettivamente appagata e rispettata proprio dal “Primo processo ad Oscar Wilde”. Perché pensi che dopo oltre un secolo la gente sia ancora tanto attratta dal personaggio Wilde, oltre, naturalmente, che da te come interprete e regista di questo spettacolo?
Perché intanto è interessante la forma del processo: si fanno falsi processi in televisione, e purtroppo non si fanno quelli veri, come ben sappiamo, per cui sembrerebbe che il mondo abbia bisogno di verità, la gente è tremendamente curiosa. Poi c’è la voglia di rispecchiarsi in un personaggio così divertente, nel senso profondo, come è stato Wilde, che è ancora attraente perché è quello che c’è dietro la curva, ed è sempre una magia ascoltare una persona che ha delle connessioni mentali che gli fanno formulare frasi che tutti vorrebbero poter formulare ma che per una sobrietà di intelletto non riescono a fare. Nessuno di noi sarebbe in grado di riuscire a pensare e parlare come faceva lui.
Dopo Wilde ci saranno, fra pochi giorni, due importanti appuntamenti, entrambi nel cartellone del Positano Teatro Festival: uno è un debutto assoluto, come attore, insieme ad Antonella Morea, diretti da Fabio Coifoglia in “Canta o sparo”, novità di Manlio Santanelli, l’altro è la ripresa di una tua regia, una delle più interessanti operazioni teatrali dell’ultimo anno: “Quattro mamme scelte a caso” interpretato da quattro bravissime attrici quali Rosaria De Cicco, Gea Martire, Antonella Romano e Imma Villa. Ce ne parli?
Da un punto di vista espressivo le due cose si incrociano, proprio riguardo allo stile essenziale di cui parlavo prima. Anche lo spettacolo “Quattro mamme scelte a caso” ideato da Massimiliano Palmese ( che con Alessio Arena, Luigi Romolo Carrino, e Massimiliano Virgilio firma i quattro monologhi interpretati dalle quattro attrici sopra menzionate, ndr), per omaggiare Annibale Ruccello di cui quest’anno ricorrono i 25 anni dalla morte, vige l’essenzialità: le quattro attrici entrano in scena, si fermano e cominciano a recitare e così comincia anche la magia. Per quel che riguarda lo spettacolo di Cocifoglia, ritorno ad essere solo un attore. Per anni io ho fatto solo il regista, ma poi non ho resistito all’attrazione del palcoscenico, pur dandomi una tensione tremenda, infatti prima di andare in scena sono letteralmente terrorizzato. Quando fai il regista puoi staccare all’ultimo minuto e puoi, non dico godere dello spettacolo, perché la tensione c’è comunque, ma assistere al tuo spettacolo. La regia da una sorta di delirio di onnipotenza, perché è un mondo che tu crei e prende vita, il teatro dal punto di vista attoriale ti da tutto un altro mondo di sensazioni e di emozioni, da ragione all’ ipertrofia del proprio ego, alla vanità estrema che ti porta però non solo ad esibirti, ma a condividere con il pubblico un’emozione. Nel momento in cui hai delle persone, che siano cento o mille, che pendono dalle tue labbra, e provano un’emozione che tu riesci a dare, trovi uno dei motivi per cui sei sulla terra.
Hai avuto Maestri che vengono dalla tradizione del teatro del novecento, da Casagrande a Carotenuto, quindi Calenda e tanti altri: cosa ti hanno dato e cosa rimane di loro nel tuo modo essenziale di concepire il teatro?
Ognuno di loro mi ha dato qualcosa: mi hanno insegnato, appunto, a non trascurare mai il pubblico, perché il teatro non è ciò che è scritto in un testo, la storia che ti raccontano, o lo spettacolo che è in prova. Il teatro è l’unica forma d’arte non esiste se non c’è un interlocutore: tu puoi anche provarlo e fare la performance a casa tua o in sala prove, ma l’evento teatrale è quello che accade quando l’attore entra in scena e trova anche un solo spettatore. L’incontro tra lo spettatore e l’attore, questo è il teatro, questo mi hanno insegnato i grandi artisti di tradizione con cui ho lavorato. Poi tutto è stato inquadrato grazie anche ad altri grandi attori con cui ho lavorato, quali Piera Degli Esposti e Roberto Herlitzka, che mi hanno insegnato la grande forza della recitazione, anche non convenzionale, che riesce comunque ad esaltare il testo e a far arrivare allo spettatore, se pur non convenzionalmente, anzi ancora di più, la forza ed il senso logico del testo.
Dopo tutti questi importanti appuntamenti sicuramente avrai dei progetti a cui tieni e che conti di portare al più presto in scena
C’è effettivamente un progetto a cui lavoro da molti anni e che desidero portare in scena prima o poi. Si tratta dell’ “Edward II” di Cristopher Marlowe, un’opera che mi ha folgorato quando ero ragazzo, soprattutto grazie al film che negli anni ’90 realizzò Derek Jarman, un film meraviglioso, una di quelle opere che, ventenne, mi fece dire “come avrei voluto farlo io questo film!”. Sono stato così colpito che spero di portare in scena, prima o poi, la mia versione di Edoardo II. Io amo molto interpretare personaggi lontani da me, poiché, contrariamente a quanto si pensi, gli attori interpretano meglio i personaggi distanti da loro. Mi piace l’idea di essere qualcosa che mai sarò nella vita: Edoardo II è soprattutto un re, ed io , purtroppo, aggiungerei, non lo sarò mai, ma è un re che perde regno e corona per amore, ed a me piacerebbe essere una persona in grado di rinunciare a tutto per amore. Magari in qualche brevissimo momento della mia vita ciò è accaduto, ma non credo di essere un uomo che riuscirebbe a rinunciare alla corona che non vedrei l’ora, in realtà, di mettere in testa. Amo moltissimo la “struggenza” di questo personaggio di Marlowe
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Ciò che dispiace è che quella che avete appena letto è, per l’apunto, un’ intervista scritta e non radiofonica o televisiva, perché al lettore non sarà possibile cogliere a pieno la grande comunicativa che la parola di Roberto Azzurro contiene grazie all’espressività che usa in scena e nella vita. Le sottolineature, l’ironia di certe espressioni, le pause, sono solo da immaginare, ed io mi ritengo un fortunato, perchè ascoltare ed essere amico di Roberto è un vero privilegio.