Autore di quasi 400 titoli scritti di tutti i generi tranne, come afferma egli stesso, quello pornografico, pubblicati con 85 case editrici diverse, Roberto Piumini è conosciuto soprattutto come poeta e scrittore per bambini e ragazzi. Tuttavia, dopo aver assistito ad alcune delle sue letture animate e agli incontri teatralizzati, abbiamo voluto incontrarlo non per parlare della sua attività letteraria, bensì del rapporto con il teatro, scoprendo, sin da subito, la sua natura assai contradittoria. Pur essendo l’autore di decine di testi teatrali, aver fatto l’attore e persino il burattinaio, dice di non essere appassionato di teatro e tanto meno di burattini. L’incontro è avvenuto nella casa milanese dello scrittore, nel bel mezzo di un trasloco. Circondati dagli scatoloni pieni di libri, ecco cosa siamo riusciti a scoprire.
Volevo iniziare la nostra conversazione dal suo lungo e, a quanto pare, fruttuoso sodalizio con il teatro-laboratorio “Mangiafuoco”: cinque titoli messi in scena, diversi laboratori, seminari, progetti educativi dedicati al teatro di animazione, ma l’altro giorno, al telefono, lei mi ha completamente spiazzato dicendo che non le piacciono affatto i burattini…
«Non che non mi piacciano. Sono molto poetici, molto più poetici dell’attore e anche della marionetta. Qualcuno disse che sono un pensiero altisonante. Quindi quel che si sente è la voce del pensiero più che del personaggio. Essendo poveri nella loro espressività naturale, devono per forza servirsi dell’espressività verbale. Per questo m’interessano. Tuttavia, non potrei dire che sono la mia forma teatrale preferita».
E qual è?
«Nella mia carriera ho conosciuto forse più musicisti che la gente del teatro di prosa e ho lavorato di più per il teatro musicale che per quello drammatico».
Per un certo periodo però ha fatto anche il burattinaio?
«E’ stata un’esperienza che è durata sette mesi e ha dato alla luce un solo spettacolo. All’epoca giovanissimi, io e un mio amico ci siamo lanciati in quest’avventura facendo tutto da soli: dalla baracca ai burattini, dal testo alla musica. Davamo la voce a tutti i quattordici personaggi. Poco dopo però ci siamo accorti che fare i veri burattinai per noi era troppo impegnativo. Io dovevo studiare, lavorare. Il mio amico pure, oltre che a suonare la chitarra e a fidanzarsi tre volte alla settimana».
Ha mutuato qualcosa da quell’esperienza?
«La fatica di stare per ore con le braccia alzate».
Nella sua biografia scrive di aver fatto l’attore. Come è nato il suo rapporto con il teatro?
«Come molti, da ragazzo, volevo fare l’attore. Tanto è vero che, al terzo anno dell’università, feci la domanda alla scuola del Piccolo. Per l’esame di ammissione avevo preparato il monologo di Antonio e credo che, se non fosse stato l’intervento di un prete, bravissimo, che lavorava nella stessa scuola a Saronno dove io insegnavo (all’epoca lo si poteva fare anche senza avere una laurea, bastava essere iscritto all’università), l’avrei superato. Non so perché, alla vigilia dell’esame volli condividere con lui i miei progetti ed egli allora mi invitò a riflettere sulla mia scelta. In poche parole, mi consigliò di terminare prima gli studi universitari e poi fare quello che volevo. E io gli detti retta».
Quindi ha rinunciato alla scuola del Piccolo?
«Sì. Mi laureai in pedagogia e alla fine non mi iscrissi più né in questa né in un’altra scuola di teatro, nemmeno a quella dell’oratorio. Ciò tuttavia non mi impedì di fare per tre anni l’attore professionista alla Loggetta di Brescia».
Anche questo all’epoca lo si poteva fare?
«E’ stato tutto un percorso. Era l’inizio degli anni ’70 e il ’68 ancora si sentiva molto nell’aria: circoli sperimentali, teatri popolari, borghesi, di animazione; gruppi di ricerca dove spesso non si capiva bene che cosa si cercava. L’atmosfera che vi regnava - misteriosa, sacramentale, esoterica - mi piaceva molto e cominciai a frequentarli. Forse perché “cercavo” anche io e avevo inventato dei modelli di lavoro sul corpo e sulla voce con gli elementi teatrali e d’improvvisazione. Grazie a questi gruppi conobbi e per un breve periodo entrai a far parte del Teatro Tascabile di Bergamo, quindi del Teatro Uomo di Milano, con il quale feci “Giulio Cesare” adattato da Giuseppe Di Leva. Infine, grazie alle conoscenze acquisite, arrivai alla Loggetta, successivamente trasformata in Centro Teatrale Bresciano. Era il periodo in cui il giovanissimo, ma già cattivissimo Massimo Castri cominciava a fare le sue prime regie. Con lui feci “La tempesta”, “E’ arrivato Pietro Gori” e “Un uomo è un uomo” di Brecht».
Insomma, sembra che per uno che non aveva mai fatto una scuola di teatro aveva davanti una carriera abbastanza avviata. Perché ha deciso di abbandonarla?
«Forse perché la vita professionale intorno era ben diversa da quella romantica come la immaginavo io. Oppure perché non avevo abbastanza narcisismo, spirito di sacrificio e astuzia politica per stare al gioco. In ogni caso, dopo tre anni, dormendo poco, viaggiando molto, vedendo sempre le stesse persone e facendo tanti discorsi sulla ricerca mente alla gente intorno a me non importava nulla (in più, nel frattempo mi era nato un bambino), decisi di smettere di fare l’attore. Per non troncare di netto con il CTB mi offrii di condurre i corsi di espressività corporea e vocale per i ragazzi e lo feci per alcuni mesi, girando tutta la provincia di Brescia. Spesso trovavo accoglienza nei luoghi più strani: dai centri anarchici alle parrocchie e questo non piaceva tanto a coloro che mi pagavano lo stipendio. Dopo qualche tempo mi richiamarono e dissero che preferivano che tornassi a fare attore o aiuto regista. Ma a questo punto avevo già capito che non volevo più fare l’attore professionista ».
E che cosa voleva fare?
«Proprio in quegli anni cominciai a scrivere. E ebbi molta fortuna perché le mie prime storie trovarono subito un editore. Da allora cominciai a pubblicare racconti e libri di poesie tra cui “Il carro a sei ruote”, un romanzo dedicato al teatro. E’ una storia ambientata nel medioevo che narra di un gruppo di commedianti che va in giro, vincendo sempre sulla povertà e sull’oppressione con gli espedienti teatrali. Non è una pièce, ma essendo costruita con elementi teatrali, è stata molto usata sia nel teatro che dagli insegnanti delle scuole nelle loro tesi sul teatro.
Da lì cominciarono ad arrivare le richieste di scrivere per il teatro oppure di poter usare i miei testi per metterli in scena. E siccome gli adattamenti dei miei testi fatti dagli altri non mi piacevano quasi mai e mi arrabbiavo - scrivere per il teatro non è facile, per contro è facile rovinare – iniziai a farlo io, spesso in versi, pensando anche alla musica. Così mi divertivo pure. In questo modo sono nati “Narco degli Alidosi”, in prosa, e “La commedia di Narco”, in versi, che sono stati rappresentati da tantissime compagnie di ragazzi delle scuole superiori. Anche molti musicisti - dal jazz alla musica classica - cominciarono a venire da me per cercare i testi per le loro canzoni».
Anche quelli de “L’albero azzurro”?
«Dal 1990 al 2000 con Giovanni Caviezel per questa trasmissione abbiamo composto circa un centinaio di canzoni».
Com’è stata quest’esperienza televisiva?
«Come tutti gli altri, anche questo programma con gli anni ha subito delle variazioni antropologiche e chi non sa adattarsi rimane fuori. Nel teatro ancora esiste una sorta di mediazione, nei casi migliori positiva. Nella TV è quasi sempre negativa, dettata dall’ambiente stesso: micidiale, complicato e pieno di tensioni».
Avendo fatto entrambe, che cosa il teatro ha in più rispetto alla televisione?
«Quello fatto bene ha tutto in più. Anche se, in realtà, io non sono un appassionato del teatro. Soprattutto nelle scuole, nei miei incontri con i ragazzi, lo vedo come una cosa grandiosa da far fare loro».
E non da andare a vedere?
«Vedere non è tanto importante. Finche questi resta un attività attiva, educativa e creativa viene voglia di farlo. Quando invece diventa un prodotto, bello o brutto che sia, smette di essere un’esperienza e si trasforma in un evento, cominciano i guai. Per questo mi arrabbio sempre con quelli che, venendo ai saggi dei figli, passano tutto il tempo a “flashare” per immortalare le proprie creature. Per me è la dimostrazione della nostra cultura consumista.
Personalmente, vado raramente al teatro perché nei 95% dei casi so già che mi aspetta una delusione, che mi toccherà rivedere cose vecchie e conosciute. Tuttavia, nel restante 5%, a volte, mi capita di provare una tale eccitazione che, più che a far da spettatore, mi viene voglia di saltare sul palco».
Forse è proprio quel che voleva Grotowsky…
«Io consiglio di fare il teatro perché è uno strumento sintetico di educazione sociale, di responsabilità, di espressività, di tutto quello che un uomo ha da tirare fuori. Se fossimo in una civiltà con meno mediazioni dannose, probabilmente avremmo avuto più teatri di qualità. Nella nostra situazione, purtroppo, con la fatica di far arrivare un prodotto nuovo al mercato e con l’onnipresente televisione il teatro si è degenerato molto. Per cui, dato che non sono un impresario teatrale, dico agli insegnanti: fatelo fare. Non è importante far diventare tutti attori, ma persone espressive».
Proporrebbe il teatro come una materia scolastica?
«Più che una materia scolastica, proporrei il teatro come un’esperienza. Purtroppo le scuole italiane sono quasi sempre carenti degli spazi adatti, mentre il teatro fatto dagli altri negli atri o nelle palestre è la cosa peggiore che si può immaginare. Ma, a parte questo, sarebbe ancora più importante che gli insegnanti fossero consapevoli che esiste non solo il teatro classico da andare a vedere, ma anche una serie di esperienze di teatralità moderna molto interessanti dal punto di vista educativo. Non per fare la gloria del teatro, ma per ritrovare quel che negli ultimi decenni è stato perduto: la coralità, il senso di comunità, di collaborazione. Dove, se non a scuola, i ragazzi possono mettersi a confronto fisicamente ed espressivamente in modo non aggressivo? Dove possono svolgere la loro ricerca psicologica, mimica e quella sulla parola? Secondo me, il teatro è una matrice formativa in quanto tale».
Così come la poesia lo è nell’educazione linguistica?
«Anche la poesia non può mancare nelle scuole. Non perché sono un poeta o perché la poesia è la poesia o perché è meravigliosa ecc. Ma perché dev’essere al servizio del linguaggio. Non bisogna formare i poeti o costruire un popolo di poeti. Bisogna costruire un popolo di “parlanti”. “Parlanti” di qualità che riconoscono il valore della parola, che sanno esprimersi. Dopo di che questo mondo dei "parlanti" procreerà sicuramente dei poeti, ma soprattutto sarà composto da una popolazione che sa comunicare».
Invece nelle nostre scuole, a quanto pare, si dà sempre meno importanza alla poesia...
«Per me la poesia dovrebbe essere un’esperienza quotidiana. Il fatto che ciò non avviene, che ai bambini non fanno più imparare i versi a memoria come si faceva una volta, purtroppo, dimostra che abbiamo un corpo di docenti senza anima. E’ uno dei guai dello stato. Risparmiare sulla scuola e sugli insegnanti per renderli poveri, paurosi, pigri, insofferenti è il primo segnale, quello peggiore, della politica sbagliata che vuole un popolo che non parla ».
Da anni ormai la metrica è stata praticamente bandita dalla poesia italiana. Lei invece di baciate e alternate ne fa ancora un largo uso…
«Da qualcuno sono stato chiamato “neometrico”, come se usare la metrica fosse un difetto. Io sono convinto che si può non essere antichi. Un difetto può essere quando c’è solo la metrica. Ma se tu togli alla poesia il ritmo e la musicalità, allora qualsiasi sbrodolata di parole potrebbe essere chiamata “poesia”. Non ci sono mai stati così tanti poeti da quando è stata abolita la metrica».
Lei dice di essere non un poeta, ma un poeta-narratore…
«In Italia abbiamo sempre avuto una grande difficoltà nel raccontare le storie in versi. Perché si pensa che tutto ciò che non è lirico è impoetico. La mia è stata una scelta non solo linguistica, ma anche etica. Sono convinto che la poesia serve non solo per rimuginare i vissuti psicologici di un individuo, ma per mostrare le potenzialità di un linguaggio nell’esposizione narrativa. E la drammaturgia in versi è il massimo che possa avere un teatro ».
Per questo, ai classici incontri con l’autore preferisce le letture animate e gli incontri teatralizzati?
«Il teatro con i suoi mezzi espressivi aiuta molto a comprendere meglio la parola scritta. Per questo cerco sempre di coinvolgere i ragazzi nelle letture sia quando sono da solo sia quando faccio gli spettacolini insieme ad altri musicisti e attori. Anni fa, sempre con Giovanni Caviezel ne abbiamo fatto uno molto interattivo e divertente. Lui cantava le sue canzoni scritte sulle mie poesie e io assieme ai bambini le mimavo. L’abbiamo fatto per quindici anni. Cambiavamo le canzoni, ma la forma rimaneva invariata».
C’è un’età che preferisce?
«Non sono uno specialista nei piccolissimi. Anche se ho scritto anche per loro. Diciamo che i miei piccoli lettori sono quelli dagli otto anni ai dodici anni».
Ha scritto e ha tradotto anche una trentina di titoli per gli adulti, ma è conosciuto soprattutto come autore per l’infanzia. La disturba questo clichè?
«Già Rodari si lamentava che nessuno si accorgeva che aveva scritto dei libri per gli adulti. Con me è successa la stessa cosa. Soprattutto all’inizio, venendo a sapere che l’autore ero io, i critici addirittura si vergognavano di recensire i miei libri per gli adulti. Poi, però, si meravigliavano che uno che scrive le storielle e le filastrocche per i bambini, in altre occasioni, potesse usare anche un linguaggio forbito».
Ha ancora qualche scritto non pubblicato nel cassetto?
«Nel cassetto ho sempre qualcosa. Anche perché non ho mai avuto la frenesia di pubblicare».
Perché non li ha proposti o perché li hanno respinti?
«Perché non li ho proposti. In genere, tutto quello che ho scritto con l’intenzione di pubblicarlo l’ho pubblicato. Nel cassetto ho in abbondanza cose scritte nei primi anni e scavalcate dalle altre. Durante questo trasloco, per l’ennesima volta ormai, mi faccio la promessa di tirar fuori ed esaminare tutto quello che in tutti questi anni è rimasto nell’oblio. Ci sarà sicuramente qualcosa che sarebbe interessante riprendere e sviluppare».
Scrivere libri rende economicamente?
«A uno che sapesse farlo meglio di me, sì. Certuni hanno scritto un centesimo di quello che ho scritto io e hanno guadagnato molto di più. Bisogna avere molta accortezza nel leggere i contratti, nel programmare la produzione, nello scegliere l’editore e cosi via. Tutti gli aspetti di cui non mi sono mai interessato più di tanto».
Le è capitato che qualcuno abbia usato i suoi testi senza dirle niente?
«Mi hanno messo in scena senza dirmi niente e anche fatto delle pubblicazioni pirata».
Si arrabbia in questi casi?
«Io sono molto orientato verso quello che devo fare anziché verso quello che ho già fatto. Più che arrabbiarmi, mi infastidisco».
Roberto Piumini aspetterà tutti coloro che volessero entrare a far parte del MITO e far provare ai propri figli l’emozione di costruire una fiaba musicale, partecipando di persona allo spettacolo musicale “Bimbi, facciamo musica insieme!” al Conservatorio di Milano il giorno 15 settembre alle ore 17.00.