Verrà replicato dal 04 al 06 novembre p.v. al Teatro Keiros di Roma lo spettacolo teatrale “Alfabeto muto”, scritto da Francesca e Natale Barreca e Pino Tossici e messo in scena dall’abile regista Stefano Maria Palmitessa, con gli attori Pino Tossici, Giulia Tuzzi, Mary Fotia, Massimiliano Calabrese e Monica Maffei e con la partecipazione di Mara Palmitessa con le sue coreografie.
“Alfabeto muto” ha debuttato lo scorso maggio sempre al Teatro Keiros, facendo realizzare un “sold out” già in fase di prevendita dei biglietti e facendolo rientrare, già da allora, in cartellone per la stagione teatrale 2011-2012, che è appena iniziata.
Stefano, prima di mettere in scena “Alfabeto muto” nel maggio scorso, ti aspettavi che avrebbe avuto tutto questo successo?
S.M.P.: No. Non pensavo di arrivare a una seconda tranche di repliche. Anche perché alcuni degli attori dello spettacolo (Massimiliano Calabrese, Monica Maffei e Giulia Tuzzi) erano alle loro primissime esperienze e non mi aspettavo che potessero crescere così tanto (come poi è stato) e dare questo forte tratto alle parti giovanili della commedia.
Sette repliche sono tante per i piccoli teatri di Roma (come è il teatro Keiros)!
In “Alfabeto muto” i personaggi appaiono, quasi per tutta la durata dello spettacolo, a mezzo busto, come fossero nel teatro dei burattini. Ma anche come se fossero in tv. Quindi inuno spazio molto particolare.
Quanto è importante per te lo spazio?
S.M.P.: Lo spazio è importantissimo, ovviamente. Non è uno spazio televisivo. E’ uno spazio pittorico. Sono dei quadri, delle rappresentazioni. E, si differenzia dai tableaux vivant perchè di solito il tableau vivant ha una partitura tipica delle arti figurative (infatti, alcuni si ispirano a dei quadri esistenti di pittori)… Mentre queste nostre rappresentazioni/immagini, sono delle immagini della memoria, per questo non c’è ambientazione. Sono personaggi ambientati nel niente, non c’è scenografia, nel senso materiale del termine. E si differiscono dal “casotto” dei burattini perché l’azione dei burattini, per quanto stilizzata, imita pur sempre gli esseri umani. Invece gli attori del mio lavoro sono all’interno di una coreografia mentale. Si muovono come se fossero in una danza mentale.
Lo scenografo è Silvano Martorana. E’ l’autore dell’”involucro” dentro il quale io riesco a esprimere le mie azioni, il mio teatro del grottesco. E’ un contenitore duttile che proprio per questa sua duttilità, ho potuto utilizzare per il mio precedente spettacolo che si chiama “Fioretti d’amore”.
A me piace non rivelare che a tratti, sia i corpi degli attori, sia i loro movimenti, perché non è nella super-esposizione e nel “collasso” di immagini che dobbiamo oggi sopportare la possibilità di poter descrivere gli stati d’animo, ma nel centellinare, e quindi nascondendo in parte o rivelando solo alcuni dettagli fisici degli attori, i particolari anatomici degli interpreti. Quindi, la “scatola”, questa scatola scenica, nasconde per rivelare solo a tratti.
In “Alfabeto muto” la scenografia, quindi, pur essendo quasi assente, paradossalmente, è molto importante ed evidente. E così anche il trucco facciale degli attori. C’è un grande impatto visivo per lo spettatore. Probabilmente tutta questa importanza che tu gli dai deriva dal fatto che sei anche un critico d’arte… Quanto pensi che sia importante per un uomo di teatro conoscere anche l’arte (pittura, scultura, …)?
S.M.P.: La cultura è importante per un regista teatrale. Ritengo che avere una cultura nelle arti figurative sia essenziale. Oggi, in una società che coltiva le immagini (in senso lato) e che quindi si aspetta opere teatrali che abbiano questo genere di attenzione, direi che è indispensabile conoscere l’arte. Ma non penso di essere l’unico che la pensa così. E’ il teatro che va verso questa direzione dello sviluppo di ambienti sostitutivi della realtà.
Parlaci della locandina. A cosa ti sei ispirato per quella foto?
S.M.P.: Io sono un appassionato delle opere di Rabarama, che è un’artista italiana (il vero nome di questa importante scultrice e pittrice è Paola Epifani; vive e lavora a Padova, dove collabora con la Vecchiato Art Gallery; per le sue gigantesche sculture di bronzo o alluminio - corpi umani piegati in pose plastiche e colorati come fossero puzzle -, ha ricevuto importanti riconoscimenti sia in Italia sia all’estero, ndr). In particolare, l’immagine della locandina (ispirata a un’opera di Rabarama esposta in un parco di Reggio Calabria, ndr) si collega, essendo una figura coperta di lettere dell’alfabeto, al titolo della mia pièce per il fatto che si tratta di due linguaggi: uno scritto e un altro agito per mezzo di segni, come l’alfabeto muto. E quindi questo parallelo, oltre al bianco e nero che è sempre dominante in tutte quante le mie pièces, sono il motivo che mi ha indotto a fare questa scelta. La modella della locandina è Giulia Tuzzi che è una delle attrici della pièce.
Hai appena citato l’alfabeto muto, il celebre codice di segni manuali con cui giocavano una volta i bambini… Il titolo della tua pièce rimanda anche a quello?
S.M.P.: Certo! Non a caso, alla fine della pièce, uno dei personaggi della pièce, Selene (interpretato da Mary Fotia), mima la parola “addio” proprio facendo ricorso all’alfabeto muto.
E l’aspetto musicale, invece, lo ritieni necessario in un’opera teatrale?
S.M.P.: Anche la parte musicale per me è molto importante. In “Alfabeto muto” sono stato molto aiutato dalle musiche curate da Silverio Scramoncin che danno una nota di magia e di incantesimo a tutta la pièce. E poi … c’è la parte coreografica. Nella realizzazione di “Alfabeto muto” è stata fondamentale anche la collaborazione, ormai “antica” con mia figlia Mara che ha dedicato una parte considerevole delle energie da lei accumulate come danzatrice afro-haitiana, per il disegno coreografico, non solo coreutico, m anche mimico, delle azioni sceniche.
Nel riferirti ad “Alfabeto muto” tu non nomini spesso la parola “spettacolo” perché so che non ti piace, … Invece, preferisci usare la parola “pièce”. Come mai?
S.M.P.: Dopo aver letto un libro di Carmelo Bene e Umberto Artioli, “Un Dio assente”…
Carmelo Bene odiava lo “spettacolo”. Semplificando le sue opinioni, io ritengo che lui volesse dire che lo “spettacolo” è una vergogna in quanto il “teatro” non è ripetibile, mentre lo “spettacolo” sì. Le repliche erano una cosa terribile per lui. Si assoggettava.
Lo spettacolo è un po’ tutto: teatro, cinema, …
Ecco perché il teatro si differenzia dal cinema. Perché il teatro è sempre diverso ogni sera. Il teatro è creazione unica di un atto, unico, irripetibile e irriproducibile.
Come nascono i tuoi spettacoli?
S.M.P.: Gli spettacoli nascono tutti da miei impulsi.
Come è nata la tua passione per il teatro?
S.M.P.: Mio padre (Ennio Palmitessa) è stato sovrintendente al Teatro dell’Opera di Roma, il Teatro Costanzi, negli anni ’60, quindi sono cresciuto tra le tavole teatrali. Stavo a contatto con tutti i cantanti lirici che passavano nel Teatro dell’Opera in quegli anni … ed erano anni molto vivaci dal punto di vista della lirica a Roma. Quindi è chiaro che respirare per tutti quegli anni (io vedevo quasi tutti gli spettacoli che si svolgevano a teatro) l’aria artistica del teatro mi ha formato.
Nella tua carriera, quale è lo spettacolo che ti ha dato più soddisfazione mettere in scena?
S.M.P.: “Riccardo III on the beach” (messo in scena al Teatro Greco di Roma, nel 2007, ndr). Perchè è lì che ho capito quale era la mia strada. Mentre ritengo “Fioretti d’amore” e “Alfabeto muto” le opere in cui mi sono espresso meglio… Però con “Riccardo III on the beach” ho capito quale sarebbe stato il mio percorso artistico.
Nella tua carriera più volte hai messo in scena delle tragedie di Shakespeare. Oltre al già ricordato “Riccardo III on the beach” del 2007, anticipiamo che per il 2012 tu e la Compagnia teatrale Paltò Sbiancato state preparando un adattamento del “Tito Andronico”… Cosa ami del “bardo inglese”?
S.M.P.: C’è una grande affinità, ovviamente da me sollecitata (chiaramente non posso fare un parallelo tra me e Shakespeare!) tra lo spartito shakespeariano, fatto di situazioni scomponibili in quadri e il mio teatro che si ispira a questo tipo di partitura. Tutti i miei spettacoli sono una serie di “frame”... non voglio utilizzare la parola italiana “quadri” perché si avvicinerebbe troppo al genere dei tableaux vivant (di cui ti dicevo prima) e che è una cosa diversa…!
Questo è il motivo. Poi c’è l’aspetto dei contenuti che riguarda il grottesco, le indagini sull’invidia, sulla violenza nella società, che è anche uno degli argomenti che a me preme mettere in primo piano. E anche agli autori dei miei lavori (con i quali lavoro ormai da 10 anni) e che mi corrispondono perfettamente: Francesca Barreca, Natale Barreca e Pino Tossici. Tutti e tre con esperienze legate a questo genere di contenuti. Francesca Barreca è una neurologa, coautrice con me di una graphic novel dal titolo “Alzheimer Tanz”. Pino Tossici è un docente di una neo-disciplina che indaga sui processi della scrittura autobiografica. Natale Barreca è un esperto di storia della drammaturgia.
Come è nata la Compagnia teatrale Paltò Sbiancato?
S.M.P.: Paltò Sbiancato è nato da un gruppo di attori e drammaturghi romani con i quali io già collaboravo all’inizio del XXI secolo e svolgevo attività didattica per la Fondazione Laboratorio Teatrale Jankowski & Palmitessa. La dicitura che da il nome a Paltò Sbiancato è un acronimo delle iniziali dei fondatori.
Tu hai messo in scena i classici del teatro, come Shakespeare, Goldoni, Wilde, Beckett, Pirandello, Ibsen e Cechov… ma so che sei un grande conoscitore anche dei grandi autori teatrali della Polonia, con autori come Fredro, Gombrowicz, Witkiewicz, di cui hai messo in scena delle opere…
S.M.P.: Sì, è vero. La scorsa estate sono stato a Cracovia per la prima volta, ma conoscevo bene le opere degli autori polacchi già da tempo. Sono stato nella “Cricoteca” che è praticamente la biblioteca della cantina dove sono raccolte le opere di Kantor e che si trova nella vecchia Cracovia. Lì ci sono ancora, messe in scena con i manichini, le scene di “La classe morta”, una delle opere del teatro di Kantor che per me è un’opera fondamentale del teatro d’avanguardia degli anni ’60. E’ da lì che sono nati i vari Różewicz, Witkiewicz e Gombrowicz.
Io, per esempio, ho fatto un lavoro su Gombrowicz: “II Matrimonio in un atto" tratto da "II matrimonio" di Witold Gombrowicz (messo in scena a Roma Teatro della Dodicesima, nel 2008, ndr) che è un’altra opera fondamentale del teatro polacco…
… Quanti polacchi! Ognuno di loro per me è un genio totale. Noi italiani siamo talmente arretrati che conosciamo a malapena qualche autore inglese e del teatro dell’assurdo e ignoriamo il teatro dell’est e dell’America latina…
Basta vedere i cartelloni dei teatri qui a Roma: sono sempre uguali!
Le traduzioni del teatro polacco in italiano non si trovano: sono rarissime. Noi abbiamo idea che il teatro dell’assurdo sia solo francese o inglese, come se fosse nato dal nulla. Ed invece quelli erano anni in cui gli autori polacchi si scatenavano nelle opere dell’assurdo!
… Grotowski, poi, è stato fondamentale nella storia della recitazione…!
Il teatro dell’assurdo!... Tu pensi che l’incomunicabilità sia un fattore insito da sempre nell’animo umano, oppure pensi che si sia sviluppato come conseguenza delle Guerre Mondiali, oppure, peggio ancora (e paradossalmente) credi che si sia derivato dallo sviluppo delle comunicazioni di massa e dalla “solitudine in mezzo alla folla” che ne deriva?
S.M.P.: No, no! Io penso che l’incomunicabilità faccia parte dell’uomo… anche se può essere più o meno esasperata da fattori sociali ed economici. Comunque, c’è una base di irrazionalità espressa dai filosofi dell’’800 che per primi hanno teorizzato perfettamente l’insoddisfazione dell’uomo rispetto al mondo in cui vive… Insoddisfazione nel soddisfare i suoi ideali a causa della vita che vive: questo è Camus (non solo nel teatro, ma in tutta la sua letteratura).
Che consiglio daresti a un giovane che si avvicina a uno dei mestieri del teatro (attore, regista, scenografo, …)?
S.M.P.: (ride) Me la cavo con una battuta di Gassman che ho sentito su Facebook e Youtube in questi ultimi giorni e che è azzeccatissima: “Non si recita per guadagnarsi il pane. Si recita per mentire, per smentirsi, per essere diversi da quello che si è. Si recitano parti di eroi perché si è dei vigliacchi. Si recitano parti di santi perché si è delle carogne. Si recita perché si è dei bugiardi fin dalla nascita. E soprattutto si recita perché si diventerebbe pazzi non recitando.”.
Questo per me è il motivo per cui si sta nello spettacolo, sia dentro che fuori. Nessuno ha sintetizzato meglio la nostra arte… Ed è un bene che sia così!
Adesso una domanda che riguarda i temi scottanti degli ultimi tempi. Secondo te, con i tagli economici alla cultura, che direzione prenderà il teatro? Diventerà un’arte di nicchia, oppure ci sarà una prevalenza di teatro medio-basso o amatoriale?
S.M.P.: Per quanto riguarda i tagli alla cultura, questi influiranno soprattutto sul teatro di qualità. Perché il teatro delle barzellette ed il teatro alla Zelig, con i comici,… quello troverà fondi per conto suo sempre: non avrà mai bisogno di finanziamenti pubblici.
Grazie, Stefano.
Per chi volesse assistere ad “Alfabeto muto”, le repliche si svolgeranno al Teatro Keiros di via Padova, 38 (metro B – piazza Bologna), Roma, con i seguenti orari:
- venerdì 04 e sabato 05 novembre 2011, alle ore 21:00
- domenica 06 novembre 2011, ore 18:00
Per info e prenotazioni:
tel. 06 / 44238026
oppure
tel: 347 / 4222594