L’attore siciliano, il suo rapporto con Shakespeare e il successo del suo ultimo testo teatrale “Geppetto e Geppetto”.
Camerini del Teatro Carcano di Milano: durante la lunga seduta di trucco che precede il suo ingresso in scena nel ruolo di Caterina nella Bisbetica domata, Tindaro Granata ci accoglie per rispondere a qualche domanda. Parliamo di questa nuova Bisbetica domata che lo vede protagonista nel ruolo di Caterina.
La scelta di un cast tutto al maschile è solo legata al rispetto dei canoni del teatro elisabettiano o ci sono altre letture?
La scelta del regista Andrea Chiodi è stata voluta, non tanto per rispettare la tradizione del periodo, elisabettiano, ma perché essendo questo un testo che parla in maniera molto precisa dell’assoggettamento della condizione femminile, allestirlo oggi ha un peso molto importante, soprattutto se ci rapportiamo con il mondo orientale, dove la donna vive ancora in una condizione di forte inferiorità. Per questo le parole di Caterina nel monologo finale, quando lei viene “addomesticata”, hanno un peso più malinconico, più struggente nel momento in cui vengono dette da un uomo che si mette nella condizione della donna con una sorta non di giudizio, ma di distacco, che lo rende ancora più duro, perché dentro quel monologo non c’è nessun seme di amore, ma ci sono solo ribellione o accettazione, a seconda di come ciascuno di noi lo vuole interpretare.
E tu in che direzione hai lavorato per costruire questo monologo?
Io per questo monologo mi sono molto ispirato a Margaret Thatcher. Infatti Shakespeare aveva scritto questa commedia durante il regno di Elisabetta I, che per regnare scelse di far emergere il suo lato maschile, rinnegando la sua femminilità al punto di meritarsi il soprannome di Regina vergine. Per questo nel cercare una figura a noi contemporanea che si avvicinasse a quei canoni mi sono rivolto alla Thatcher: una donna che ha dovuto rinnegare sé stessa per comandare.
E quindi mi sono studiato i suoi discorsi su You tube, cercando di copiare le sue movenze nel rivolgersi alle grandi platee: diretta con lo sguardo e con dei cambi repentini nel muovere la testa, quasi prendesse la mira per lanciare delle frecce. Secondo me è perfetta per essere la Caterina del 2018.
In “Geppetto e Geppetto” all’inizio si parla di una famiglia omosessuale ma poi si allarga sulle famiglie in generale. Come vivi la grande empatia che ogni sera si crea con il pubblico?
È stata per me una grande fortuna riuscire ad avere tutto quello che questo lavoro mi ha dato: la possibilità di incontrare tanta gente e di mettermi in discussione attraverso il confronto con il pubblico su un tema così importante come quello della famiglia. È una cosa meravigliosa.
A me piace molto parlare con il pubblico, per questo nel foyer dei teatri lasciamo sempre un quaderno dove gli spettatori possono scrivere le loro impressioni, lasciare il loro recapito e io rispondo a tutti. Per me è importante essere riuscito, grazie a questo testo, ad avere un dialogo diretto con gli spettatori.
Quasi tutti i tuoi spettacoli hanno ricevuto riconoscimenti e premi. Oltre all’innegabile soddisfazione, tutti questo non potrebbero provocare anche un po’ di ansia. Tu come li vivi?
Ansia grazie al cielo no, perché io, essendo di origini contadine, ho ricevuto tutte le gratificazioni che mi sono arrivate con grandissima gioia, come se fossero dei complimenti di persone che fanno parte del tuo ambiente lavorativo e che ti stanno incoraggiando dicendoti di continuare. Quando io penso a questi premi e alle persone che hanno creduto in me e votato per me mi sento più sicuro e sereno. Chiaro che se ogni volta pensassi che allo spettacolo successivo devo dimostrare di essere all’altezza mi verrebbe l’ansia, ma non mi piace vivere così. Anche perché so benissimo che la vita è una ruota.
In questo momento sta girando bene ed io sono grato a tutte le persone che mi stanno aiutando e sostenendo, ma arriverà il momento in cui scenderò da questa ruota e ci sarà qualcun altro al mio posto. Per questo cerco di viverla nel modo più sano e onesto. E l’onestà per me sta nel sapere che sono una persona che ama ricevere premi, che vuole arrivare in alto, però tutte queste cose le faccio con lo spirito che mi hanno trasmesso i miei antenati contadini: cioè che tu devi lottare per migliorarti, in tutti i sensi, anche nel percorso artistico. Perché è giusto avere successo, ricevere premi, ma questi doni sono armi a doppio taglio, possono essere pericolosi e per non ferirti, devi sempre affrontarli con onestà e umiltà.
A proposito delle persone che hai avuto vicino e che ti hanno aiutato nel tuo percorso artistico, ti cito tre nomi: Massimo Ranieri, Elisabetta Pozzi e Carmelo Rifici.
Potrei aggiungerne anche molti altri. Comunque a me Massimo è rimasto nel cuore per una cosa molto importante, oltre a tutto quello che mi ha insegnato sul palco: lui ha preso un ragazzino di 22 anni che non era mai salito su un palcoscenico e gli ha dato il ruolo del coprotagonista. Ed io di questa cosa gli sarò sempre debitore perché senza di lui oggi non sarei qui a fare quello che faccio. Io qui sto bene, sono felice e sono sicuro che tutto questo è partito da lui. Invece Elisabetta quando è in scena percepisco che ha una carica, un peso tragico che vedo solo in lei. E quella caratteristica è unica, non si può rubare, non si può copiare, non si può imparare. Devi soltanto ammirarla e, da collega, sperare che prima o poi qualcosa passi anche a te. Mentre grazie a Carmelo Rifici ho imparato ad andare più in profondità, a farmi delle domande più profonde rispetto a quello che è il mio lavoro, rispetto al testo. Lui mi ha trasmesso la responsabilità e la serietà con la quale bisogna affrontare questa professione e quindi lo studio del testo e la capacità di andare oltre alle semplici parole.