Non si conosce né l’età né le origini della marionetta. La marionetta è una metafora che ognuno interpreta in modo suo; è un’illusione, un gioco di fantasia attraverso il quale, sin da tempo immemorabile, l’uomo cerca di infondere l’anima nella materia morta. E anche se, per fortuna, sono finiti i tempi bui in cui erano considerate creature stregonesche per cui venivano torturate, decapitate e bruciate nel rogo, la magia che trasmettono vive ancora.
Signora Colla, ma è vero che se prendi in mano una marionetta quella si rianima?
«A volte basta muovere un solo filo. D’altronde è la nostra arte: per far vivere una marionetta dobbiamo essere capaci di trasmetterle i nostri sentimenti, emozioni, stati d’animo».
La Sua vita trascorre in mezzo alle marionette. Da bambina Le piacevano le bambole?
«Per niente. Ne avrò avuto di certo qualcuna, ma volevo qualcosa che si muovesse, perciò i miei pupazzi erano i gatti. Capitava che mio padre mi chiedesse a tavola di fargli vedere le mani per controllare se avevano dei graffi».
Tra tutte le marionette del Suo teatro c’è ne una alla quale Lei si sente particolarmente affezionata?
«Faccio fatica a sceglierne una. Ho dei ricordi bellissimi che mi legano ad alcune di loro. Per esempio il simpatico e perseguitato Scimmiottino Color di Rosa di Collodi. Lo interpretai per una ripresa televisiva quando mio padre lo realizzò e mi piacque soprattutto perché gli prestavo la voce. Oppure il particolarissimo soldato di Luigi Veronesi. Lo muovevo accompagnata dal primo violino de La Scala».
Suo padre Gianni Colla è stato un uomo di grande spirito innovativo e fu il primo ad affiancare alle marionette degli attori veri.
«Da giovane, mio padre faceva l’attore di prosa e contestava un po’ il teatro di famiglia. Un giorno, mio nonno, che aveva ormai superato ottant’anni, lo chiamò e lo mise davanti alla scelta: continuare la carriera d’attore oppure prendere in mano la compagnia. Mio padre gli rispose: “Io prendo in mano il tuo teatro, ma lo voglio rivoluzionare: voglio che diventi un teatro per l’infanzia.” Bisogna dire che all’epoca quando la mia famiglia ha fondato la compagnia, non era come oggi. Le marionette erano di legno e, agghindate in modo diverso, potevano rivestire più di un personaggio: quello cattivo, generico, una strega, ecc. Anche il repertorio era diverso, rivolto per di più al pubblico adulto perché spesso aveva un ‘fondo’ politico…Era il ‘46, l’epoca dell’avvento del cinema e della televisione, quando mio padre mise in scena il Pinocchio e lo portò a Firenze, negli Uffizi. In seguito realizzammo le fiabe di Perrault, Wilde, Andersen che fecero il giro d’Italia. Sul palco però c’erano ancora solo le marionette. Fino al 1961, quando con la rivisitazione del Pinocchio sulla scena del Teatro dell’Arte si sono comparsi anche gli attori. Alle marionette mio padre ha deciso di lasciare tutto quello che apparteneva al mondo di fantastico - Pinocchio stesso, i medici, i coniglietti con la bara, grillo parlante (che all’epoca interpretai), le marionette del teatro del Mangiafuoco – mentre i personaggi del mondo reale - Geppetto, Mangiafuoco e la fata turchina – furono affidati agli attori veri. Si lavorava però in playback, cioè seguendo la registrazione vocale fatta in uno studio. Perché la sala era grande e mio padre esigeva la perfezione fonica. Solo verso la fine degli anni ottanta, con il trasloco nel più piccolo teatro degli Olivetani passammo agli attori recitanti. E stato allora che un attore che entrava da noi “a digiuno di marionette” imparava a muoverle prestando loro anche la propria voce».
Dopo i più svariati personaggi di Collodi, Rodari, Barrie e molti altri avete un nuovo arrivato: Tom Sawyer.
«Tenevamo in serbo questo progetto da quando eravamo ancora dagli Olivetani facendo persino comporre le musiche da Lorenzo Pellegrini. Ma poi, con lo sfratto, abbiamo dovuto rimandare tutto».
A proposito dello sfratto. Come vi trovate alla Quattordicesima?
«Ci troviamo abbastanza bene, anche se ci sono ancora dei problemi in sospeso legati all’incendio avvenuto qualche anno fa. Certo, rispetto agli Olivetani ci sentiamo molto più in periferia, ma il nostro affezionato pubblico ci ha seguiti comunque».
Spesso si sente parlare della stasi nell’arte marionettistica.
«Credo che il problema non sia solo quello marionettistico. Sono convinta che le difficoltà che i teatri e la cultura in generale stanno attraversando siano il frutto dell’ignoranza seminata dalla televisione in questi ultimi vent’anni. Anche perché il nostro non è più un teatro di marionette, ma di marionette e attori. E’ un teatro per l’infanzia. I bambini tendono a confondere gli attori con le marionette e mi capita spesso di sentire un giovane spettatore chiedermi di mostrargliene una dello spettacolo appena visto quando in realtà era un personaggio in carne e ossa. Parlando invece della marionettistica come forma d’arte, bisogna ricordare che questa non può essere inventata, ma tramandata dal maestro all’allievo. Soprattutto in Italia, dove non esistono le vere scuole, questo ramo teatrale rischia di scomparire. Ed è un peccato perché ancora oggi, dopo sessant’anni che faccio questo mestiere, vedendo in sala i bambini a invadere il proscenio - tanto loro si identificano con i personaggi sentendosi dei veri protagonisti – provo la più grande gioia che un attore possa avere».
Crede che la tradizione marionettistica della Sua famiglia possa avere seguito?
«Io rappresento la quinta generazione dei marionettisti Colla e sono molto contenta di avere qui a mio fianco mia nipote Stefania. Anche se, da piccola, non aveva mai espresso il desiderio di lavorare al teatro, si vede che, dovendo respirare quest’aria sin dalla nascita, era inevitabile che prima o poi ci cascasse. I suoi figli ora sono adolescenti e spero che la nostra storia lunga quasi due secoli continui a vivere».