Canzoni storiche (Il caffè della Peppina, Volevo un gatto nero) con nuovi arrangiamenti, e più recenti (come Il torero Camomillo): lo Zecchino d’Oro festeggia 60 diventa un musical e festeggia i suoi 60 anni a teatro, con un tour fino a marzo 2018.
Abbiamo intervistato Raffaele Latagliata, autore e regista dello spettacolo Il magico zecchino d’oro, che celebra il sessantesimo anniversario della manifestazione canora dedicata ai bambini, entrata nel cuore di generazioni di italiani. È anche l'occasione per parlare di strategie di audience engagement ed opportunità per i giovani che intendono avvicinarsi al teatro.
Un musical sulle canzoni dello Zecchino d’Oro. Come è nata l’idea?
Da molti anni l’Antoniano di Bologna voleva realizzare uno spettacolo teatrale, più precisamente un musical, ispirato allo Zecchino d’Oro. Erano stati fatti vari tentativi, naufragati sul nascere. Anche perché l’Antoniano è paragonabile a un brand aziendale ed è sempre attento al rispetto di un certo tipo di valori. In occasione del sessantennale della manifestazione canora, sono stati coinvolti altri due soggetti: Fondazione Aida di Verona e il Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento.
Può sembrare un’operazione anacronistica, considerando i numerosi talent musicali per bambini.
La nostra è un’operazione dedicata ai bambini e alle loro famiglie, che si ispira specificamente allo Zecchino d’Oro: per la prima volta viene realizzato uno spettacolo teatrale che si avvale per la sua colonna sonora di alcune delle sue canzoni più famose, appositamente riarrangiate e cantate non da bambini, ma da performer adulti che danno vita ai personaggi della storia.
Uno degli aspetti che rende lo Zecchino d’Oro differente dai talent degli ultimi anni consiste nell’essere sempre stata una manifestazione pensata per i bambini, dove si cantano canzoni adatte a loro e non brani già famosi, a volte senza nemmeno avere l’esatta consapevolezza di ciò che si canta.
Molti degli autori sono gli stessi di Sanremo, cioè le canzoni hanno una loro valenza musicale, oltre a contenere un messaggio per l’infanzia.
Lo Zecchino risveglia i ricordi dell’infanzia di tutti noi, attraverso le canzoni che ci hanno fatto crescere ed a cui tutti siamo affezionati. Al termine di un lavoro abbastanza complesso, abbiamo pensato di mettere insieme cinque canzoni storiche con altrettante attuali: le vincitrici delle ultime tre edizioni più due non vincitrici, provenienti dall’edizione 2016.
Qual è la storia raccontata da queste canzoni?
Si tratta di un viaggio onirico. Lo spunto deriva dalla canzone L’Omino della Luna: ho immaginato che il personaggio lanciasse in aria un magico zecchino d’oro, che crea così una vibrazione sonora che a sua volta genera il sogno. L’Omino vive nella parte della luna piena di luce e di fantasia. Ma ci sono anche gli incubi, generati dalla strega Obscura che vive nell’oscurità.
I due, litigando, fanno cadere lo zecchino, che precipita dalla luna nella cameretta di Alice. Alla fine di un lungo viaggio durante il quale incontra tutti i personaggi della storia, la bambina si risveglia nella sua cameretta, crede che sia stato tutto un sogno, ma nella tasca del pigiama trova davvero la moneta. Alice diventa adolescente, imparando che nella vita tutte le emozioni sono importanti.
Come definiresti il tuo percorso artistico?
Ho intrapreso un percorso molro eclettico. Durante l’Università, mi sono iscritto alla Bernstein School of Musical Theatre a Bologna. A 25 anni avevo sia il diploma alla scuola di teatro, sia la laurea in giurisprudenza e allora mi sono detto: “Vediamo se riesco a fare l’attore, perché faccio sempre in tempo diventare avvocato”. Mio padre è un magistrato ed ha accettato definitivamente la mia scelta solo dopo il conseguimento della laurea. Da allora, non mi ha mai fatto mancare il suo sostegno psicologico.
Ho iniziato al Teatro Bellini di Napoli, con gli spettacoli di prosa firmati Tato Russo. In seguito, ho passato un provino con la Compagnia della Rancia e ho lavorato con loro in numerosi musical, dal 2002 al 2010. Nel frattempo, ho fatto anche altre cose, era un periodo in cui si lavorava molto.
Affrontare vari linguaggi espressivi è utile in ogni declinazione artistica?
In Italia succede molto spesso che si sale su un carretto e ci si rimane. Lavorare con lo stesso regista è estremamente istruttivo, se è un grande genio, però sei sempre fermo lì. Invece io sono riuscito a fare un po’ di musical, di avanguardia, ho lavorato con Daniele Salvo, che artisticamente è “figlio” di Ronconi.
Adesso che mi sto dedicando alla regia, il percorso mi consente di poter dirigere un attore che magari ha meno esperienza nel teatro di parola, poi magari gli indico un passo di danza e lo so chiamare col nome giusto, conosco la tecnica vocale e mille altre sfumature. Da tutto questo deriva maggiore credibilità, mentre si cresce anche anagraficamente.
Il pubblico è notoriamente eterogeneo. Esiste una “formula magica” per coinvolgerlo il più possibile?
È quello che sto cercando di fare come direttore artistico della stagione di prosa “Mantovateatro”, combattendo l’atteggiamento elitario di un certo tipo di teatro che parla a stesso, agli addetti ai lavori o a un pubblico estremamente selezionato.
Secondo me la varietà è sempre una ricchezza. A Mantova ho costruito un cartellone, magari non facile, ma che può incuriosire lo spettatore altrimenti difficile da intercettare. Lo scopo è attirare il pubblico, per poi proporgli qualcosa di culturalmente più elevato. Se ci si attesta esclusivamente su un teatro di tipo elitario, arrivano cento spettatori in sala. Se proponi solo spettacoli nazional-popolari, avrai sempre la sala piena, rischiando però di rinunciare alla qualità. Bisognerebbe raggiungere il maggior numero di persone possibili, cercando di avvicinarli al teatro, facendoli divertire riflettere, emozionare.
Le scuole di teatro sono in grado di offrire un futuro ai giovani?
Il teatro va scelto: è come una bella signora che devi invitare a ballare, però il primo passo lo devi fare tu. Sei tu che devi avvicinarti al teatro, scegliere di voler salire su un palcoscenico. Non puoi essere costretto. Qui a Mantova, siamo partiti dodici anni fa con quindici allievi e oggi ne contiamo più di duecento. Non è vero, dunque, che il teatro non piace ai ragazzi ed è noioso: si tratta di un preconcetto.
Alcuni di questi ragazzi crescono, poi qualcuno va a completare la propria formazione presso accademie professionali; poi tornano e si esibiscono con la loro compagnia, oppure realizziamo noi delle regie per alcuni di loro. Si cerca di dare una continuità, che però è sempre una scelta e mai un’imposizione.