Si è spento a Lubiana a 76 anni Frank Uwe Laysiepen, in arte Ulay, una delle colonne portanti della performance art. Lottava da anni contro un cancro.
È un giorno di lutto per il mondo dell'arte performativa e della cultura: si è spento oggi all’età di 76 anni l’artista tedesco Ulay, al secolo Frank Uwe Laysiepen, maestro della performance e del concettuale; la notizia arriva dalla stampa locale di Lubiana, la città slovena in cui viveva da più di dieci anni.
Le cause della morte non sono ancora note, ma era malato da tempo: nel 2011 gli era stato diagnosticato un cancro in seguito all'uscita del documentario di Damjan Kazole, “Project Cancer”.
Tra le figure chiave della Performance art degli anni Settanta, Ulay ha attraversato per oltre quarant'anni la scena artistica internazionale: la sua è stata una vita all'insegna della performance art e dell’intensa relazione con Marina Abramović, con cui ha dato vita a uno dei sodalizi artistici e d'amore più potenti dell'ultimo secolo.
Una vita nell'arte
Nato nel 1943 a Sollingen, in Germania, Ulay è considerato uno degli artisti più radicali e avanguardisti dell'arte performativa del Novecento. Figlio di un gerarca nazista, la sua storia familiare è tragica: rimane prematuramente orfano di entrambi i genitori e durante l'adolescenza vive la propria nazionalità in modo conflittuale.
Negli anni ’60, a circa trent'anni, con già una moglie e un figlio, decide di abbandonare tutto per dedicarsi all'arte: si trasferisce ad Amsterdam, dove inizia a frequentare l'ambiente controculturale olandese e si avvicina alla fotografia, con una forte fascinazione per le Polaroid, che diventa sempre più intimamente connessa con la performing art.
Attivo fin dagli anni Settanta prima in Germania e poi in Olanda, il fotografo tedesco sviluppa la sua ricerca su due assi paralleli: la fotografia e la performance. Con entrambe vuole approfondire il tema dell'identità sessuale, esplorando le diverse nozioni di gender in azioni performative in cui appare travestito e mascherato, metà uomo e metà donna: sperimentazioni all'avanguardia a metà fra fotografia e live performance.
L'incontro con Marina Abramović
Ulay incontra la sua metà artistica Marina Abramovic nel 1976 ad Amsterdam, alla Galleria de Appel: la “nonna della performance art” e l’artista tedesco Ulay instaurano una grande intesa artistica ed una profonda e travagliata relazione sentimentale che durerà 12 anni.
Tra gli anni ’70 e ’80 dal loro sodalizio artistico e di vita nascono opere storiche come "Relation in Space", che segna il loro esordio come coppia d’arte alla Biennale di Venezia del 1976, i famosi "Imponderabili" e "Relation Works" – performance basate su una forma estrema di body art, che turbarono anche l’Italia.
I due vivranno per cinque anni in un furgone Citroën, girando tutta Europa con il loro personalissimo lavoro dedicato al tema della relazione uomo-donna.
A proposito dei primi anni della loro relazione raccontava Marina: «Sono andata ad Amsterdam, con Ulay abbiamo comprato una vecchia auto della polizia francese e abbiamo viaggiato per cinque anni. Vivevamo con niente, di performance e per la performance, in macchina, girando, senza dover pagare affitto né luce, fermandoci in mezzo alla natura, facendo la doccia nelle stazioni di servizio».
Anche la loro separazione fu performativa. "The Lovers" (1988), la loro ultima performance che sancisce la fine della loro unione, rimase negli annali: decidono di percorrere la Muraglia Cinese, partendo dai due estremi, Ulay dal Deserto del Gobi, Marina dal Mar Giallo - una camminata di 2500 chilometri, e di trovarsi esattamente a metà per dirsi addio.
La vita dopo Marina
Dopo l’addio a Marina Abramovic, non senza alcune battaglie legali sui diritti d’autore, negli anni ’90 Ulay torna a dedicarsi all'antico amore, la fotografia, analizzando criticamente la posizione dell’individuo emarginato nella società contemporanea e la vulnerabilità degli altri, affrontando tematiche legate al nazionalismo, al razzismo e alla disuguaglianza, con la serie "Berlin Afterimages" (1994-’95) e "Homeless" (1992). La performing art però rimane fondamentale nel suo modo di agire, portando avanti spettacoli, azioni, e seminari.
Tra i momenti più celebri di una vita dedicata alla 'Performance art', l'indimenticabile e commovente incontro di Ulay con Marina Abramovic nel 2010 al MoMa di New York. Ulay sorprese Abramovic presentandosi al museo statunitense dove era in corso la performance "The Artist is Present", in cui i visitatori venivano invitati a sedersi di fronte all'artista serba.
Una volta arrivato il suo momento, si è seduto e ha guardato negli occhi per un minuto la donna amata per oltre un decennio: un incontro inaspettato e toccante, intenso ed emozionante, le cui immagini fecero il giro del mondo.
La malattia: l’arte come cura
Nel 2011 si ammala di tumore e decide di trasformare la malattia nel più grande progetto artistico mai realizzato: l’arte diventa la sua cura. Inizia a interrogarsi sul senso della vita e dell'amore filmandosi e fotografandosi mentre visita i luoghi più importanti della sua vita e incontrando coloro che ne hanno segnato le tappe, tra un ciclo di chemioterapia e l'altra. Nasce così "Project Cancer", un documentario uscito nel 2013 diretto da Damjan Kozole, un viaggio alla scoperta della sua vita e della sua anima di uomo e artista. L’artista lo considerò come “un altro esperimento sul proprio corpo”.
Nel 2014 Ulay a proposito della sua malattia diceva: “Nel picco della mia carriera ho trattato molto male il mio corpo con azioni masochistiche, auto-aggressive, ferendomi da solo. Tre anni fa ho scoperto di avere un cancro. Ma non aveva nulla a che fare col mio lavoro: le mie performances del passato, anzi, mi hanno insegnato che la mente deve essere più potente del corpo”. Il Project Cancer, l’arte più in generale, gli salverà la vita.
Ulay, figura complessa e singolare, resta uno degli artisti più interessanti e meno classificabili del panorama artistico internazionale, la sua scomparsa lascia un vuoto incolmabile nel mondo dell'arte.