Musica

Allevi: "Gli attacchi di panico mi fanno felice"

Allevi: "Gli attacchi di panico mi fanno felice"

Cinquantamila copie vendute: una cifra incredibile nell'asfittico panorama discografico, che diviene inspiegabile se ad avere raggiunto un simile obiettivo è un compositore per nulla commerciale. Giovanni Allevi è ormai una star, per quanto sui generis. Le tv se lo contendono, la regione Marche lo ha scelto come testimonial della prossima campagna turistica (è nato nel 1969 ad Ascoli Piceno). E il suo «Joy Tour» registra continui tutti esauriti. Stasera suonerà allo Smeraldo di Milano, domani al Colosseo di Torino. Si è abituato alla fama? «Sono un filosofo, ho acquisito saggezza. Vivo questo momento con serenità, è quello che ho sempre sognato. Non nel senso della fama, ma come riconoscimento alla mia musica». Come se lo spiega il successo «pop» di un disco strumentale come Joy? «Non me lo spiego. Ho piena dedizione solo nella musica, tutto il resto mi sfugge. Credo che la mia musica provochi un impatto emotivo violentissimo negli spettatori, purché siano predisposti e vulnerabili alla carica delle mie note. Joy contiene uno sviluppo compositivo che oggi non c'è più, ma che era tipico della grande tradizione classica europea». Qual è il suo modo di comporre? «Non ho scelta nei confronti delle note, non c'è mai rifinitura: la musica viene a trovarmi, io non faccio altro che riportarla nel pentagramma così com'è. Da un po' di tempo mi fa visita un suono composto anche da archi e fiati. Lavorare con un'orchestra è ormai una mia esigenza. Voglio usare questa forma musicale antica e prestigiosa in chiave contemporanea». Lei sembra una persona riservata. Non ha paura quando sale sul palco? «Più che paura, sono terrorizzato. Quando mancano pochi minuti all'inizio, da dietro le quinte sento il brusio del pubblico e fisso il mio pianoforte. E' allora che mi chiedo: come farò a emozionare tutti, come potrò ricordarmi ogni nota? Certe volte penso di non essere neppure un pianista, sono assalito dal panico. Poi, quando si apre il sipario, passa tutto con l'abbraccio della gente. Mi sento la persona più felice del mondo, mi abbandono interamente a loro e alla musica». Anche «Joy» è nato da un attacco di panico? «Ero appena tornato dalla Cina, dove per la prima volta avevo toccato con mano il successo. Quando atterrai a Milano, ebbi un attacco di panico per troppa felicità. In ambulanza mi dissi che avrei dedicato il prossimo disco alla gioia di vivere: Joy, appunto». Se le fanno il nome di David Helfgott, il pianista di Shine, lei che risponde? «Che quel mio attacco di panico è in qualche modo paragonabile alla sua "follia". Qualsiasi artista, non soltanto un pianista, corre il rischio di immedesimarsi troppo nella propria arte. Me compreso». La infastidisce la promozione in tv? «Per niente. A 17 anni tenni un concerto a Napoli: c'erano solo 5 persone. Mi fecero un tifo da stadio, lì capii che quella era la mia vita e che l'arte non è una questione di numeri. Sfrutto la tv come tramite potentissimo per fare arrivare la mia musica a più persone». Legge ancora Dylan Dog? «Sono laureato in filosofia, il mio pensiero è stato abituato a raggiungere vette rarefatte di profondità. Per reazione mi sono avvicinato a forme semplici di comunicazione, eppure poetiche, come il fumetto: Dylan Dog e Topolino. Anche al cinema non cerco film di qualità, ma l'intrattenimento». Non è attratto dall'idea di scrivere per il grande schermo? «Le mie note non si adattano a essere mero sottofondo. La musica è un'entità a sé stante, non mi piace l'idea di piegarla a vantaggio di un'immagine, del consenso popolare, del marketing». Be', il suo successo è nato da uno spot in cui un suo brano era «mero» sottofondo. «La scelta di Spike Lee mi ha onorato, perché mi ha preferito a Springsteen e Santana. Ha girato uno spot di livello internazionale, senza dialoghi, piegando le immagini alla musica e non viceversa. Poi, sì, grazie a quella pubblicità un mio brano è diventato famoso in tutto il mondo. Non lo nego».