Musica

BOB DYLAN @ ALCATRAZ - MILANO 22/06/2011

BOB DYLAN @ ALCATRAZ - MILANO 22/06/2011

Poche settimane fa, ad un incontro di presentazione dell’ edizione aggiornata del bel libro “La voce di Bob Dylan” del prof. Alessandro Carrera, qualcuno dal pubblico chiese all’autore se ancora ha un senso andare oggi ad un concerto di Bob Dylan. La domanda è più che lecita visto che  ormai da qualche anno a questa parte i concerti sono molto simili tra loro, quasi fossero una stanca ripetizione di un rito che non sembra avere particolari guizzi di vitalità ma che resta on the road solo grazie al carisma del personaggio. Così, se fino a qualche anno fa la stampa e molti critici musicali, ad ogni apparizione del nostro in Italia, ripetevano il solito “mantra”  - che qui mi rifiuto anche solo di accennare causa overdose di lettura nel corso degli anni. Se volete sapere quale è, basta leggere una qualsiasi delle recensioni che compaiono con cadenza annuale e che fondamentalmente ogni volta ripropongono gli stessi abusati cliché su Dylan e le sue prove live - ora, pur con le consuete eccezioni, incensano uno spettacolo che è difficile distinguere o ricordare in maniera particolare da un anno all’altro.
Ad onore del vero ci sono anche gran pregi nell’assistere ad uno spettacolo di Dylan oggi. È come fare un salto indietro nel tempo ma, paradossalmente, non in quegli anni che hanno fatto la fortuna delle canzoni “di protesta” e di Dylan stesso. No, il gioco dylaniano è più sottile: gli arrangiamenti, l’ abbigliamento dei "musici" e persino la voce di Dylan, arrivano da un altro tempo e da altri luoghi che non sono i “meravigliosi” anni ’60 ma si spingono ancora più indietro, recuperando blues, country e cowboy sound da Hank Williams in poi. Come a dire al proprio pubblico: “ Volete la nostalgia? Io ve la do…ma vi do quella di tempi che non avete nemmeno mai preso in considerazione! Voi avete nostalgia dei ’60 ? Io quella degli anni’ 30 e questa vi servo !”. E il gioco, pur se ripetitivo nel tempo, funziona ancora abbastanza bene ( magari non bene per i dylaniani -  abituati praticamente da sempre alle bizze del nostro ma anche a momenti incredibilmente evocativi o energici - ma benissimo per i neofiti che, a fine serata, escono dai palazzetti “gasati” ed entusiasti dello show)
Quindi, al contrario di anni fa quando si andava ai concerti di Dylan non sapendo come sarebbe stata la serata - sublime o atroce, comunque mai anonima - oggi si va ad assistere ad uno show sapendo quasi tutto per filo e per segno pur sperando sempre però in un lampo di grandezza che renda lo spettacolo davvero differente da quello dell’anno prima. Beh, di lampi quest’anno all’ Alcatraz ce ne sono stati, eccome!
Che fosse un concerto un po’ diverso dal solito si era già capito dalla scelta della location per l’unica data italiana, cosa anche questa non consueta. Di solito, infatti, quando Dylan passa dalle nostre parti, di media una volta all’anno, approda in palazzetti o spazi aperti per quattro o cinque date. Che la scelta sia caduta sull' Alcatraz, locale che nasce come disco-club ma che fortunatamente, in una Milano dove gli spazi latitano sempre di più, si sta proponendo come validissima alternativa, ha spiazzato non poco i fans. E' comunque vero che il locale ospita abbastanza spesso grandi concerti. Per dire, qui nel corso degli anni ci sono passati tra gli altri David Bowie, Lou Reed e Nick Cave, per non parlare delle prove-concerto dei Rolling Stones, qualche anno fa …mica paglia! Mancava solo lui…e lui è finalmente arrivato, facendo sold out nel giro di qualche settimana di prevendita, nonostante il prezzo del biglietto non fosse esattamente popolare.
Puntuale alle 21,15 l’annuncio – quasi retrò - che apre le danze e che scatena l’entusiasmo all’entrata dei sei cowboys musicanti: “Ladies and Gentlemen please welcome the poet laureate of rock ‘n’ roll. The voice of the promise of the 60’s counterculture. The guy who forced folk into bed with rock. Who donned makeup in the 70’s and disappeared into a haze of substance abuse. Who emerged to find Jesus. Who was written off as a has-been by the end of the 80’s, and who suddenly shifted gears releasing some of the strongest music of his career beginning in the late 90’s. Ladies and Gentlemen - Columbia recording artist Bob Dylan!”
E Dylan, assiepato dietro alla solita pianola che ha ormai quasi sostituito le chitarre, attacca Leopard-Skin Pill-Box Hat…ma si capisce subito che qualcosa non va. Distratto da un che di non ben definito -  forse le luci troppo dirette, forse qualche problema con le “spie” dell’ amplificazione – con gesti secchi ed impazienti “intima” ai musicisti che lo accompagnano di andare alla svelta verso la conclusione della canzone. Meglio va con When I Paint My Masterpiece dove, abbandonato l’organetto per la chitarra, raggiunge il centro del palco e, circondato dal gruppo, omaggia l’ Italia - per chi sa coglierne la sottigliezza - in modo criptico. Buone esecuzioni anche per le bluesate Til I Fell In Love With You e I Don’t Believe You ( forse questa un pochino anonima) ma siamo davvero sempre nello standard mantenuto negli ultimi anni. Intanto i problemi continuano, Dylan fra una canzone e l’altra  - ma anche in corso d’opera - vaga nervoso per il palco alla ricerca di non si sa cosa ( l’angolo più oscuro? Una “spia” funzionante?) e così Summer Days è meno esplosiva del solito e Spirit On The Water e Tweedle Dee & Tweedle Dum scorrono senza lasciare segni particolari. Ma a ciel sereno arriva la prima bordata…e che bordata!! Dylan trova quel che cercava esattamente a bordo palco, nessuna luce puntata su di lui e a meno di due metri dal pubblico.  E' qui che la serata prende tutta un’altra direzione. L’ Alcatraz si trasforma nel girone infernale dei bluesisti ( non credo esista ma dovrebbe…) e sarà la vicinanza inconsueta - per Dylan - col pubblico, sarà perché molto più semplicemente oggi gli gira così, il vecchio cowboy sembra davvero scuotersi dal torpore della routine e sfodera tutta la sua voce “ di sabbia e colla” per una versione davvero infernale di I Can’t Wait. Assistiamo basiti alla trasformazione: Dylan si contorce, si accovaccia a livello platea, ringhia minaccioso, arringa i fans (!!), sghignazza (!!!) alla vista delle reazioni del pubblico che, travolto dall’inconsueta situazione, reagisce in maniera più che entusiasta.
E’ un risveglio troppo duro, al temine della canzone, tornare alla “normalità” con The Levee’s Gonna Break, anche se eseguita a regola d’ arte. Fortunatamente la zavorra ci viene gettata da una commovente versione del capolavoro Visions Of Johanna e l' aspettativa torna alta. Dopo una routinaria ma comunque sempre rockeggiante Highway 61 Revisited, Dylan riguadagna la posizione a bordo palco e la tensione pubblico-artista torna in modo potente quando, pur intonando una composizione relativamente nuova – Forgetful Heart - , Bob abbandona nuovamente il deja vù musicale e ci mette l’anima, rendendo altissima questa preghiera laica al cuore ed alle sue bellezze. E fa davvero impressione sentire la voce spezzata di un settantenne cantare di tanta delicatezza. Gli si può perdonare la seguente Thunder On The Mountain ma soltanto perché a ruota arriva Ballad Of A Thin Man, e qui avviene l’impensato, la trasfigurazione di Dylan in Tom Waits. Con una voce che da qualche tempo non si sentiva, più nera del nero, Bob scarnifica letteralmente la canzone trasformandola in un blues torrido e sulfureo. La temperatura nel locale ormai è altissima e la potenza dell’interpretazione non fa che alzarla ulteriormente con Dylan che nuovamente si è avvicinato al pubblico per arringarlo, quasi per accusarlo dei propri peccati, come fosse un predicatore del profondo sud pronto ad esaltare o a punire i propri fedeli per la propria ottusità.
Il concerto potrebbe tranquillamente finire qui…e, di fatto, forse lo fa veramente. Usciti per una breve pausa, i sei fuorilegge rientrano ma Dylan si è già buttato tutto dietro alle spalle e lasciato dietro le quinte, come un giocattolo di cui si è presto stufato, l’ispirazione dei pezzi migliori della serata. I bis sono quelli di (quasi) sempre, Like A Rolling Stone, ( fa sempre piacere sentirla, forse anche cantarne il ritornello tutti insieme,  ma non è più lei, già da tempo..) una irriconoscibile e pure bruttarella versione di All Along The Watchtower e la sempiterna Blowin’ In The Wind, spogliata di ogni senso pacifista e generazionale, quasi recitata ma poco o per niente toccante come lo è stata in passati concerti, anche di solo dieci anni fa. Ma non importa: mentre i fuorilegge lasciano il locale dopo aver sparato sul pubblico, diretti al bus nero come l' inferno che li porterà nella prossima città da saccheggiare, un'immagine torna in mente: il ghigno di Bob, nella penombra, rivolto ai propri pards nel momento di massima tensione, con il pubblico urlante, durante I Can’t Wait.

SETLIST

Leopard-Skin Pill-Box Hat
When I Paint My Masterpiece
‘Til I Fell In Love With You
I Don’t Believe You (She Acts Like We Never Have Met)
Summer Days
Spirit On The Water
Tweedle Dee & Tweedle Dum
Can’t Wait
The Levee’s Gonna Break
Visions Of Johanna
Highway 61 Revisited
Forgetful Heart
Thunder On The Mountain
Ballad Of A Thin Man

BIS

Like A Rolling Stone
All Along The Watchtower
Blowin’ In The Wind