Ufficialmente iniziò tutto nel 2006 quando David Lynch le fece incidere una canzone (Polish Poem) per il proprio film Inland Empire, trovando così in Chrysta Bell l’ultima, in ordine di tempo, delle sue “muse” artistiche. Lynch però non si fermò a quell’ episodio ( e se è per questo, non ha relegato la bella Chrysta al solo ruolo di “musa” artistica visto che nel frattempo se l’è pure impalmata..) e, tempo qualche anno, divenne autore, produttore e in alcuni brani anche musicista di This Train, primo album ufficiale di Chrysta Bell. Ed è proprio il tour a supporto del suo lavoro discografico d’ esordio ad approdare finalmente - sotto l’ ala protettrice del festival MiTo - a Milano, città fino ad ora colpevolmente lasciata fuori dalle precedenti incursioni live della Bell in Italia. Introdotta da una breve e surreale video-presentazione dello stesso Lynch (che ha curato anche le coreografie ed i filmati proiettati su di un telo alle spalle dei musicisti), Chrysta Bell compare quasi fluttuando sul palco del teatro Parenti. A vederla così, quasi una diva del cinema noir anni ’40 in lunghi guanti rosso carminio, mantellina eterea ed attillatissimo (e cortissimo) vestito che delle notevoli gambe nulla lascia all' immaginazione, risulta difficile inserirla nel contesto di quel passato che lei stessa descrive vissuto in Texas fra locali county-blues, polvere e whiskey. Eppure, dopo la Real Love d’ apertura - molto Nick Cave - e le successive This Train e Friday Night Fly, quando afferra la chitarra elettrica per Right Down To You non si fatica a capire che, per quanto possa (giocare ad) essere una sophisticated lady, le sue radici affondino proprio in quelle terre e in quei generi musicali. Non è casuale infatti che, man mano che il concerto proceda e si “sporchi”, Chrysta si liberi degli orpelli eleganti per arrivare all’ essenza nuda della musica. E se qualcuno dovesse pensare che il successo e la relativa esposizione mediatica della Bell sia frutto soltanto della frequentazione “altolocata” sbaglia di grosso: anche se David Lynch rappresenta una tappa ed un traguardo non da poco, la ragazza si è fatta musicalmente le ossa con gente del calibro di Willie Nelson, Donovan e Brian Setzer fra gli altri. E’ vero che sul palco trasforma in carne e sangue le eroine di celluloide di Lynch ma le sue mise en scène, pur evocando il fantasma di Laura Palmer, le interpretazioni jazz malate di Dorothy Vallens/Isabella Rossellini in Velluto Blu e le atmosfere stranianti di Lost Highways o di Mulholland Drive, hanno un’ impronta artistica del tutto personale e l’interpretazione a metà concerto di Be Bop A Lula, con le sue movenze schizoidi, sta lì a dimostrarlo. Accompagnata da una solida band, Chrysta non si risparmia. Lei per prima visibilmente stupita dall’ accoglienza calorosissima e dal tutto esaurito della sala grande del Parenti, dapprima blandisce il pubblico con la dolce All The Things – prima canzone scritta a quattro mani con Lynch – e poi lo trascina nell’ inferno di Up In Flames dove, fra fiamme e luci rosse incandescenti, fa capolino un giro di basso che arriva direttamente da Twin Peaks, nano ballerino purtroppo escluso. Ed è impossibile non cogliere un ancora più palese riferimento a Laura Palmer ed a tutto il suo universo malato quando, abbandonata la chitarra dopo una elettrica e trascinante – ancor più che su album – Swing With Me, Chrysta si fa spirito tornato dall’ aldilà. Avvolta completamente dalla mantellina abbandonata ad inizio concerto e trafitta da spettrali luci bianche su fondo angosciosamente nero, cadavere tornato in vita ma ancora avvolto nel proprio sudario, la bella Chrysta ci accompagna verso il termine della notte intonando Sycamore Tree, canzone impossibile da non riconoscere per i cultori di Lynch. Scritta con Angelo Badalamenti per la colonna sonora di Fire Walk With Me, sfortunato e non proprio riuscito prequel/sequel cinematografico di Twin Peaks – girato e uscito però dopo la fine della serie tv – e già interpretata in modo quasi soprannaturale dal grandissimo ”Little” Jimmie Scott, rimane suggestiva ed ancor più ammaliante nella versione eterea - e funerea - della Bell. A chiudere la serata, a guisa di rito liberatorio a colpi di danza, nacchere e chitarre elettriche, la ritmata e finora inedita Black Tambourine, quasi un buttarsi dietro alle spalle inferni, tombe e sudari per dare spazio nuovamente alla vita. La sensazione che rimane sottopelle a fine serata è quella che Chrysta Bell, al contrario di tutte le “muse” che l’ hanno preceduta e tornate “lynchianamente” nell’ oblio – per chi, incolpevolmente, non le dovesse ricordare erano Julee Cruise (Twin Peaks) e Rebekah Del Rio (Mulholland Drive) – sia sufficientemente “tosta” da crearsi, senza troppi timori nè padri putativi famosi, un proprio dignitoso e interessante spazio artistico.
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