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Genesis senza Gabriel: fredde emozioni

Genesis senza Gabriel: fredde emozioni

In questa non inedita estate rock che fa cassetta grazie al passato, dopo i Police scocca l'ora della seconda fatale riunione: i Genesis. Quindici anni dopo essersi detti amichevolmente addio, tre uomini fra i 56 e i 57 anni - Phil Collins, Mike Rutherford e Tony Banks, zoccolo duro di una band che nell'immaginario è eternamente orfana di Peter Gabriel - si sono rimessi insieme per girare il mondo ancora una volta prima che sia troppo tardi per le loro dita, per le voci e per le giunture; e hanno aperto ieri sera il tour davanti a 40 mila persone qui all'Olympic Stadium di Helsinki, in una tiepida notte brava che era notte per modo di dire, visto che nella lunga estate artica il sole non vuol saperne di coricarsi: il che ha privato i finlandesi di una parte delle emozioni cromatiche e tecnologiche che sono la specialità della ditta fin dalle origini. A proposito: dall'inizio dei Genesis, guardacaso, son passati 40 anni tondi. E' il 1967, quando i due soliti studenti amici (in questo caso Gabriel e Banks) danno vita al nucleo che poi frutterà magnifici episodi nella stagione del progressive rock, e dopo la partenza di Gabriel nel 1975 produrrà più digeribili hit pop che porteranno il bottino a non trascurabili 130 milioni di dischi venduti. L'ombra di Gabriel pesa, eccome, sulla scaletta che parte astutamente con pezzi da Duke, l'album che nel 1980, con ancora un soffio di progressive, dilatò le vendite della band verso un genere più popolare. La gente si commuove a vedere i vecchi miti, le loro divertite rughe, la tecnica implacabile, la bravura di ciascuno. Ma, detto tra noi, dopo che Phil Collins ha fatto le foto al pubblico, e ha pronunciato il sacrosanto «Siamo qui per divertirvi», per quanto irrobustiti appaiano pezzi come o Land of Confusion o Hold on my heart, bisogna aspettare i medley degli album dei tempi d'oro per ammirare la complessità della scrittura di quei brani grazie a cui i Genesis hanno continuato a godere di una solida fama anche nel tempo delle ballate romantiche. Due le parentesi dorate: la prima cita con una magnifica In the cage che manda in sollucchero perfino i compassati finlandesi; poi rappresenta assai bene uno degli album più nobili, Selling England by the pound del 1973, il disco più citato quando la serata torna al progressive. I medley riempirebbero la serata con onore: straripante con le due chitarre di Rutherford e Stuermer, I know what i like in your wardrobe vede un Collins scatenato come interprete e giocoliere col tamburello. Una vecchia gag che funziona sempre. Effetti visivi, dicevamo. La ditta non si smentisce: il palco argentato e sinuoso ha come sfondo uno schermo di 90 mila led che invia figure e suggestioni oppure si trasforma in maxischermo (ce ne sono altri due, ovoidali, ai lati), mentre 7 braccia munite di riflettori sparano luci colorate sul trio. Al quale si sono uniti per l'occasione due vecchie conoscenze: appunto Daryl Stuermer a chitarra e basso, e alla batteria l'ancora vigoroso Chester Thompson, alter ego del Collins strumentista, con cui incrocerà le bacchette nel non nuovo (ma sempre epico) duello di batterie che porta verso una trionfale conclusione, con un altro gioiellino, Carpet Crawlers. Come si sa, tutto questo vedremo il 14 luglio nell'ormai tradizionale Telecomcerto di Roma, questa volta non più ai Fori Imperiali ma a Massenzio. Organizzata insieme con il Comune, la kermesse ha il non piccolo merito di esser gratuita, e dunque fin d'ora pare destinata a folle oceaniche, con numeri che faranno sbizzarrire la fantasia sia di Veltroni che di Progetto Italia. Un concerto dominato da una pazza voglia di suonare, dove la nostalgia (per molti giovanissimi fan, nostalgia del mai visto) si mescola all'orgoglio di un percorso artistico che ha lasciato il segno in milioni di cuori. E sul finale, fuochi d’artificio.