Una riflessione sull’eredità del grande regista attraverso i suoi scritti.
Il 25 dicembre 1997 moriva a Lugano Giorgio Strehler, uno dei più grandi registi teatrali del ‘900 nonché fondatore, nel 1947, del primo teatro stabile italiano (il Piccolo di Milano). Un gigante, che dall’immediato dopoguerra alla fine del secolo ha scritto pagine fondamentali sia nel mondo della prosa che in quello della lirica, e che si può dire abbia inventato, insieme a Orazio Costa e Luchino Visconti, il teatro di regia in Italia.
Il teatro dura, noi no. Noi ripetiamo, siamo i testimoni, le ombre che dicono parole altrui
Vent’anni dalla scomparsa sono forse un tempo sufficiente per riflettere su quanto sia ancora viva la sua lezione per le nuove generazioni. Ma in quale forma si può tramandare l’eredita di un maestro della più effimera tra tutte le arti? Se infatti un romanzo, un brano musicale, un film rimangono, il teatro, come l’esistenza umana, ha una nascita, una vita e una morte. Anche le videoregistrazioni degli spettacoli, utilissime dal punto di vista documentaristico, tendono a riproporne solo un’immagine sfocata e spesso, impietosamente, ne sottolineano l’inattualità dovuta al passare del tempo e al mutamento dell’estetica e dei linguaggi.
Il mestiere che abbiamo scelto è il più bello ma anche il più disperato del mondo
Ma per Strehler il teatro non si limitava al palcoscenico e a conferma di tutto ciò scriveva: “Il teatro è cosa viva, non si racconta. E quando il sipario è chiuso deve restare nel nostro cuore il suono dell’ultimo verso, deve diventare diario. Non si pubblicano i veri diari”.
Per lui, artista impegnato anche politicamente nell’Italia del secondo ‘900, “una riforma teatrale è sempre il corollario di una più profonda riforma, quella del costume, degli spiriti, dei sentimenti.” Per questo motivo, come per uno dei suoi autori di riferimento, Carlo Goldoni, i cui “due libri su’quali ho più meditato furono il Mondo e il Teatro”, vita e teatro nella sua poetica erano inscindibili.
Strehler viveva il teatro in ogni istante della sua giornata:
“Là nel buio delle platee del mondo, io cerco disperatamente di vincere il buio del mondo, con le mie sole mani, la mia voce stanca, i miei gesti magici, [...] prigioniero di un’illusione come tutti i teatranti che fingono la vita e la mimano, soli in mezzo a un fragore che non odono”.
E di questo ci restano testimonianze bellissime nelle sue note di regia, nelle sue interviste, nelle sue lettere che, raccontando l’uomo, fanno affiorare gli insegnamenti del maestro.
La nostra non è stata una storia di regia, ma storia di una didattica artistica e umana, quando non politica morale Come ogni vero maestro Strehler si poneva di fronte ai testi con l’umiltà dei grandi:
“Siamo qui per fare teatro, ossia per dare qualcosa di noi al mondo, realizzando in cose vive e concrete le parole dei poeti che noi serviamo”; e cercava il senso della regia sentendone la responsabilità: “La regia è un fatto critico. È la lettura critica del testo, attraverso la forma dello spettacolo e i suoi mezzi. [...] L’interpretazione critica oggettiva di un certo testo è oltre un certo limite una “posizione morale” più che estetica. [...] Le armi del regista critico-oggettivo sono dunque non la freddezza scientifica ma anche la poetica, l’intuizione”
La sua fu una grande lezione di tenacia, la tenacia di chi si sente investito da una missione:
“Io appartengo alla grande razza dei fanatici, dei mistici e allo stesso tempo dei rivoluzionari. Sono il più piccolo di loro, l’ultimo, piccolissimo, ma sono di quella razza. [...] Tieni duro, inflessibilmente, come faccio io. Tieni il tuo posto “nel” teatro. È un dovere e c’è qualcosa di sacrale in questo, qualcosa di insostituibile”
Questa lezione di teatro e di vita, inevitabilmente, andò a toccare anche il tema della morte, rispondendo forse indirettamente al quesito da cui eravamo partiti:
“Cosa si può dire di un regista, di un uomo di teatro che è morto? Perdio, bisognava lasciargli fare il teatro meglio quando era vivo.”