Teatro

49 secondi di terrore: il cinema senza futuro dei fratelli Lumière

49 secondi di terrore: il cinema senza futuro dei fratelli Lumière

Il leggendario "Arrivée d'un train en la gare de la Ciotat" (1895) dei fratelli Lumière raccontato con una impeccabile sicurezza e levità.

Lo studioso di cinema Martin Loiperdinger in un suo articolo del 2004 sulla pioneristica pellicola L’arrivée d’un train en la gare de la Ciotat (1895) dei fratelli Lumière, si dice(va) fortemente in dubbio in merito alla veridicità dei resoconti storiografici sulla reazione del pubblico alla prima del film. La storia degli spettatori che vengono colti dal panico mentre sullo schermo di fortuna di un caffè in Boulevard des Capucines viene mostrato un treno che giunge lentamente in stazione non sarebbe corroborata da alcuna prova concreta: “the story of the audience's terror circulates as a generally agreed-upon rumor. Mainstream film historiography has provided neither evidence nor even references to contemporary sources” (The Moving Image 4.1 (2004) 89-118).

L’episodio tuttavia costituisce uno dei miti fondativi del cinema, ne illustra alla perfezione tutta la magia evocativa, la straordinaria capacità di suscitare le emozioni più disparate nell’animo umano. Non solo, esso codifica in maniera originale e suggestiva lo statuto ontologico tutto nuovo dello spettatore cinematografico: la solitudine percettiva di quest’ultimo è volano di una totale identificazione fra il suo sguardo e quello della macchina da presa. Le parole di Sadoul in proposito sono illuminanti: “In L'arrivée d'un train la locomotiva giunge dal fondo dello schermo, avanza sugli spettatori e li fa sussultare dando loro la sensazione che stia per schiacciarli. Essi identificano quindi la loro visione con quella della macchina da presa: ecco che la macchina da presa diventa per la prima volta un personaggio del dramma” (Georges Sadoul, Storia del cinema mondiale, p. 32). Nulla togliendo alle finalità scientifiche e filologiche della teoria di Loiperdinger, va pur detto che sfatare un mito come questo relativo alle prime proiezioni dei Lumière non apporterebbe alcun progresso reale alla conoscenza della tecnica e della storia cinematografiche. Sì, perché il mondo del cinema è un mondo che si sostanzia di fantasmi e leggende; dunque cosa resterebbe di questo inquietante specchio dell’invisibile e dell’incorporeo se spazzassimo via le sue ombre con il lume ottuso della ragione? Di sicuro non avremmo questo piccolo gioiello di poesia scenica che è Un’invenzione senza futuro: viaggio nel cinema in 60 minuti presentato al Fringe del Napoli Teatro Festival Italia al Castel Sant’Elmo.

Certo il titolo è fuorviante e riduttivo e non riesce davvero a restituire l’essenza dello spettacolo che non si esaurisce in una semplice, onirica passeggiata nell’evoluzione del mezzo linguistico cinematografico, ma che, attraverso lo sguardo ludico e scanzonato delle romantiche e folli concrezioni sceniche di Auguste e Louis Lumière, ci racconta una delicata parabola sulla memoria e sull’amore. In scena ci sono due virgulti del teatro stabile di Genova, Federico Giani e Mauro Parrinello, che interpretano i fratelli Lumière strizzando l’occhio al duo comico per eccellenza: Stan Laurel e Oliver Hardy. I tempi scenici di questa coppia di attori sono davvero impeccabili, giocano con i praticabili di cartone con sicurezza e levità. Sono trasognati, buffi, visionari, maldestri, poetici come una foglia che danza nel vento. Poetici perché tutto ciò che fanno, ogni loro azione è il frutto di un concreto sforzo indirizzato ad ottenere il massimo della semplicita performativa: nessun orpello, nessun gravame virtuosistico, nessuna tracimante autoreferenzialità. Professionisti insomma, il che, va precisato, sta divenendo cosa sempre più rara in un paese dove forse l’ottanta per cento dei giovani si professa attore o attrice dando la stura ad abissi di cialtroneria recitativa e drammaturgica di cui ahimè, di questo passo, non vedremo mai la fine. In scena con Giani e Parrinello c’è anche la deliziosa Celeste Gugliandolo, talentuosa attrice e cantante messinese, che interpreta Marie, forse una creatura emersa dalle biografie dei Lumière, o molto più semplicemente un archetipo femminile: madre, amante, spettatrice. Marie si adatta perfettamente all’intarsio recitativo di Louis e Auguste dando vita con loro a gustose pantomime citazionali attinte da quell’immane bacino immaginifico che è il cinema di tutti i tempi.