Napoli si veste dei colori dell’arcobaleno e ospita il Gay Pride nazionale. Gli eventi per preannunciare questa importante manifestazione sono, purtroppo, passati in secondo piano, perché schiacciati dallo sciame di spettacoli proposti dal Teatro Festival Italia e da una non incisiva pubblicità che ha fatto passare in secondo piano le performance curate da Fortunato Calvino, Luigi Romolo Carrino, Myriam Lattanzio, e tanti altri che hanno accettato di mettere in campo la propria professionalità ed il proprio impegno artistico-civile al fine di sensibilizzare la cittadinanza nei confronti della più importante manifestazione sull’orgoglio gay, allargatasi negli anni a tutti quei cittadini che appartengono ad ogni tipo di minoranza (?) sessuale e non solo.
Se Napoli sembra non aver saputo ben sfruttare, almeno nel prologo, del tutto la ricchezza culturale dell’evento, sorprende ancor più positivamente l’intelligente intuito dell’assessore alla cultura di Avellino, Gennaro Romei, che, grazie alla collaborazione di Donata Ferrante (responsabile della sede irpina di I Ken) e Alessandra Mariani (dell’associazione culturale Zia Lidia Social Club) ha regalato alla cittadinanza (ed all’organizzazione del Pride partenopeo), una raffinata ed importante serata di teatro, presso il Casino di Caccia del Principe Caracciolo.
Presentato come un reading , il 17 giugno scorso per la regia di Roberto Azzurro sono andati in scena “Gli atti del primo processo ad Oscar Wilde”, drammatizzati dallo scrittore Massimiliano Palmese ed interpretati dallo stesso regista nel ruolo del grande scrittore, da Carlo Cerciello nei panni del suo grande accusatore, l’avvocato Carson, e da Marco Sgamato che ha fatto da narratore. Fedele allo stile che, soprattutto in quest’ultimo anno, Azzurro ha inciso negli spettacoli da lui portati in scena anche alla sala Assoli del Teatro Nuovo ed al Teatro Elicantropo, quanto ha potuto applaudire il pubblico irpino è ben più di un semplice reading, bensì un calzante esempio di come si possa fare teatro senza ricorrere ad artifizi roboanti ma utilizzando un grande talento interpretativo. Azzurro-Wilde e Cerciello-Carson hanno dato vita ad un duello verbale senza tregua, in un’immedesimazione talmente sorprendente da far diventare il pubblico accorso ad assistere allo spettacolo esso stesso partecipe alla rappresentazione, quale interprete del pubblico presente al processo. Roberto Azzurro è stato, ed è questa la magia della vera arte teatrale, il grande scrittore in tutto il suo essere, nella sua stravagante eleganza, nella sua irresistibile ironia, e con tutto il suo fascino affabulatorio, emozionando e dando il senso di quello che è, in tutto e per tutto, un alto esempio di teatro civile. La Londra vittoriana, con i suoi pettegolezzi, le sue ipocrisie e le sue meschinità, non è, purtroppo, così lontana da qualsiasi nostra metropoli contemporanea, e le stoccate inflitte dall’omofobo Carson, interpretato splendidamente da Cerciello, tanto bravo da apparire addirittura detestabile, sono spesso le considerazioni pregiudiziali che esprime ancora oggi gran parte di benpensanti, anche all’interno della nostra classe politica.
Lo spettacolo, che ci auguriamo possa essere rappresentato più e più volte affinché un sempre più vasto pubblico ne possa cogliere la ricchezza artistica e civile, termina con la preannunciate condanna allo scrittore e col grido disperato con cui egli volle affermare il suo diritto ad amare, dalla lettera che scrisse al giovane Bosie, di cui era innamorato, e che fu poi pubblicata col titolo “De Profundis”. Un grido reso ancora più lacerante dall’intensità interpretativa di Azzurro, che ha emozionato e commosso un pubblico ipnotizzato da questo straordinario incontro tra cronaca e teatro. Un pubblico che è esploso in un liberatorio ed interminabile applauso finale accompagnato da un’emozionante standing ovation, ed ancora una volta il teatro, quello vero, si mostra artefice di una grande sensibilizzazione dell’animo umano, un catartico viatico per la consapevolezza di quanto ancora abbiamo da percorrere perché ci possa essere un giusto riconoscimento al diritto di vivere secondo la propria natura.
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