Seguendo la biografia di Antonio Ligabue si resta colpiti dal percorso geografico ed umano, dalla parabola esistenziale caratterizzata dalle parole “follia” e “genio”. Il percorso si apre con i disegni, dopo una indicazione dettagliata delle note di vita e una curiosa istanza di cambiamento del nome (ma per vedersi attribuito quello giusto dopo il trasferimento dalla Svizzera). Ligabue disegnava facendo una forte pressione con la matita sulla carta, con tratti nervosi, insistiti, spesso frantumati e ripresi, collegati successivamente in una sorta di ricalco, un segno spesso non pulito ma fortemente espressivo, rude, primordiale, quasi barbarico, che segue l'urgenza di una ideazione con esiti quasi plastici che pongono la sua produzione a metà tra disegnatore e scultore. Sono sempre animali su terreni erbosi; i primi più statici, i successivi legati al movimento o piuttosto all'attesa del movimento, quello scatto che pare intuirsi nella posa, nella contrazione dei muscoli che rimanda ad una certa psicologia dell'animale. Curiosi i disegni su carta da musica.
Ampia la sezione dedicata agli olii, la maggior parte su faesite, dove Ligabue rappresenta una iconografia che si ripete rivitalizzandola con ingenuità ed immediatezza che non hanno simili, un modo di dipingere senza filtri e senza freni inibitori quegli animali in cui è facile riconoscere i desideri e le pulsioni del pittore. I primi sono più di maniera, un castello che si riflette nell'acqua immota, un pastore che suona il flauto. Poi gli animali che lo hanno reso famoso, animali da cortile ed esotici soprattutto, ripresi anche in sculture affascinanti. Ripetuti i soggetti di leopardi e tigri con le zampone in primo piano quasi ad aggredire lo spettatore saltando fuori dal dipinto. Gli animali sono spesso accompagnati da serpenti e ragni velenosi, ossa e teschi. E, per tornare alle tigri, la posa si ripete, di profilo con la coda che si allunga arricciata verso destra e le zampe sollevate in primo piano con le mascelle disserrate e i denti bene in evidenza.
La ricerca di Ligabue è personale e inconsapevole, ma inevitabilmente porta a Van Gogh, all'espressionismo, ai fauve, alla prima scuola romana.
Al centro di una sala la Guzzi rossa donatagli da Basilio Gnutti nel 1954 (di lui e della moglie sono in mostra i ritratti) con la quale moto alcune volte si ritrae. Quindi una lunga teoria di autoritratti (ne sono stati censiti 123) su cavalletti: la ricerca dell'identità nella ripetizione, nella riproduzione di sé stesso, sempre su sfondo di campi, spesso con insetti sul viso, a volte coi segni dell'autolesionismo: qui egli esprime il proprio disagio in modo autentico, il proprio malessere.
Il catalogo riporta tutte le opere in mostra con foto e schede. Dopo la presentazione di Augusto Agosta Tota e uno scritto di Pascal Bonafoux, Marzio Dall'Acqua si occupa della pittura di Ligabue e Sgarbi mostra come per Ligabue l'arte equivalga un riscatto, inquadrata nella vita di un “genio popolare, conosciuto attraverso una combinazione nella quale la vicenda autobiografica e la malattia svolgono un ruolo decisivo”.
Mamiano di Traversetolo (PR), Fondazione Magnani Rocca, fino al 26 giugno 2011, aperta da martedì a venerdì dalle 10 alle 18, sabato, domenica e festivi dalle 10 alle 19 (lunedì chiuso), ingresso euro 9,00 (comprensivo delle raccolte permanenti), catalogo Augusto Agosta Tota editore, infoline 0521.848327 – 848148, sito internet www.magnanirocca.it