Quando gli archetipi dell’esperienza umana diventano elementi della letteratura e del teatro, l’autore condivide a priori con lo spettatore o col lettore una quota d’immaginario e di consapevolezza emotiva; cosicché da un lato l’accesso al testo avviene attraverso un paesaggio già in parte tracciato dall’esperienza collettiva, mentre dall’altro è necessario misurarsi con le barriere cognitive della presupposizione. Spetta dunque all’autore il compito eminentemente creativo di disegnare nuove linee nello scenario archetipico, di tracciare e mostrare percorsi di senso e nessi simbolici inediti alla cognizione presupposta.
Il lavoro The rerum natura di Babilonia Teatri prosegue la riflessione della compagnia sul tema della morte, affrontato con la consapevolezza raziocinante di chi è saldamente in vita. La materia, evidentemente carica già per conto suo di tensione archetipica, viene attraversata con un linguaggio oltremodo plastico, cui corrisponde un’esecuzione verbale straniata, priva di emotività naturale, sovraccarica di un’enfasi metodica e atonale.
Come se la paura fosse provvisoriamente rimossa da un atteggiamento declamatorio e assertivo che esalta la consapevolezza del vivente, munito di un occhio trascendentale che contempla il disfacimento della vita, e da una prometeica libertà che rivendica il diritto a scegliersi i tempi e i modi della propria fine a dispetto di una contraffatta e intollerabile pietas sociale. Ma la poderosa istanza della parola resta perpetuamente fissata in fotogrammi senza azione, una programmata fissità della scena che mantiene la rappresentazione ancorata soltanto alla forza del testo. L’idea drammaturgica appare semplicemente incompiuta: lo spettatore raccoglie una sequenza di monologhi raccordati da brevi episodi coreografici, che non sembrano lievitarsi reciprocamente nella pienezza di un fatto teatrale.
Se il testo verbale raggiunge a tratti anche manifestazioni di significante forza poetica, l’evento teatrale rimane inesorabilmente in potenza. A proposito di questa scelta il critico austriaco Robert Quitta ha usato con acuta pertinenza il termine “neofrontalismo”, cioè una modalità che risolve l’azione scenica nel gesto declamatorio dell’attore piazzato di fronte allo spettatore come uno speaker: una soluzione che per il teatro contemporaneo sembra inefficace e troppo di retroguardia. Peraltro, l’intenzione di connotare il testo secondo certi stilemi del pop – la ripetizione, il refrain, la rima facilior, la citazione del luogo comune, l’aforisma elevato a cellula ritmica – non riesce ad azionare livelli simbolici o interferenze del senso, dando piuttosto la percezione di un puro annacquamento della parola; ed anche il titolo del lavoro, carico di promesse, resta inspiegato, limitandosi al ruolo di gustoso calembour fine a sé stesso, che “sporca” la citazione di Lucrezio con la macchia anglofona della modernità.
Pur nella provvisorietà dell’intero disegno teatrale vale la pena di sottolineare la buona prova della protagonista adulta, più tradizionale ma più incarnata rispetto alle altre due giovani interpreti. Le scelte iconografiche, la coreografia danzata, l’apparato scenografico vagamente iconoclasta – un presepe ricostruito con le teste decapitate di un asino e di un bue – appaiono troppo riconoscibili e datate per movimentare l’ascolto dello spettatore, simboli tardivi di una drammaturgia che avrebbe l’urgenza di una teatralità più elaborata e più audace.