Nessun artista del Novecento ha avuto l'ascendente di Francis Bacon, non tanto come pittore quanto come filosofo, titolare di un pensiero critico, di una visione del mondo come presa di coscienza della condizione dell'uomo contemporaneo. “Non c'è tensione in un quadro se non c'è lotta con l'oggetto” scriveva Bacon, e da questa lotta l'oggetto e l'immagine dell'uomo escono distorti e sfigurati, caratterizzati da una violenta carica espressionistica.
All'inizio del percorso nelle teche quaderni da disegno e schizzi su fogli anche di riciclo, intorno foto dell'atelier di South Kensington e, dominante, un ritratto di Innocenzo X da Velazquez di Pietro Martire Neri. In un'attigua sala proiezioni su quattro pareti: il visitatore, al centro, si sente inondato dalle immagini in movimento. Le opere sono volutamente sotto vetro per volontà dell'artista “per creare un effetto di unità. Mi piace la distanza che il vetro interpone tra la tela e l'osservatore”, ebbe a dichiarare.
Le tele, dagli esordi metafisici in avanti, in lineari cornici dorate, sono presentate da frammenti di frasi dell'artista. “Sento che senza un vero soggetto che ti prenda e ti divori l'anima si tende automaticamente a ricadere nella decorazione. La vera, grande arte rimanda sempre alla vulnerabilità della condizione umana”. Negli anni Quaranta appaiono già le bocche spalancate, le urla silenziose, i volti sfigurati, le visioni deformate e grottesche di cardinali e papi, figure di un allucinato teatro della vita. Del 1955 è una testa in grigio con un ghigno quasi animalesco: “c'è bisogno di qualcosa di nuovo. Non di un realismo illustrativo, ma di un realismo che sia il risultato di una vera invenzione, di un modo veramente nuovo di intrappolare la realtà in qualcosa di assolutamente arbitrario”.
L'uomo appare urlante e prigioniero, costretto in uno spazio definito, un parallelepipedo delimitato visibilmente, scatola di vetro o gabbia: l'uomo solo, irrimediabilmente, con il suo tormento interiore (“Amo isolare l'immagine, sottrarla allo spazio domestico”). Oppure l'uomo in lotta, due corpi nudi che si stringono fino a farsi male, forse si abbracciano, nell'infinito equivoco dell'amore. Il mondo, all'esterno, è perduto, disgregato: non resta che rifugiarsi in una camera sempre più disadorna, stare chiusi in stanze, seduti in solitudine o abbandonati sotto la luce di una lampadina che penzola (“Io voglio deformare la cosa al di là dell'apparenza, ma allo stesso tempo voglio che la deformazione registri l'apparenza”). “Per me l'arte è un'ossessione della vita e, poiché siamo degli esseri umani, siamo noi il soggetto delle nostre ossessioni”.
Il percorso si chiude con una serie di polittici degli anni Settanta, ottimamente riprodotti nel catalogo. “Non ho mai cercato l'orrore. Se si sa guardare e riconoscere le tensioni sotterranee, si capirà che niente di quello che ho fatto insiste su questo aspetto particolare della vita. Quando si entra in una macelleria e si vede quanto può essere bella la carne e ci si pensa, si sente tutto intero l'orrore della vita”.
Si esce da questa mostra (coprodotta da Skira in collaborazione con Arthemisia) lacerati come quegli uomini che Bacon ha ritratto senza provocazione e senza stravaganza, solo guardandosi intorno. Lucidamente.
Milano, Palazzo Reale, fino al 29 giugno 2008, aperta il lunedì dalle 14.30 alle 19.30, dal martedì alla domenica dalle 9.30 alle 19.30 (il giovedì chiusura posticipata alle 22,30), ingresso euro 9,00, catalogo Skira, infoline 02.54917, sito internet www.francisbacon.it
MOSTRA PROROGATA AL 24 AGOSTO 2008
Teatro