Nella bella e suggestiva cornice della Piccola Corte anche quest’anno va in scena la Rassegna di Drammaturgia Contemporanea, alla sua XVII edizione. E come al solito l’ingresso è gratuito. Tre opere extraeuropee -di un israeliano, tre argentine e uno statunitense- che raccontano e affrontano temi sociali, politici, civili che vanno dalla questione irrisolta di un cieco capitalismo alle guerre "democratiche", passando anche attraverso la disumanità che spesso si ritrova nel mondo del lavoro.
Benedictus è la storia di due amici, un iraniano, Kermani, interpretato da Alexander Perotto, e un israeliano, Motahedeh, ruolo di Federico Vanni, che tentano di fermare un attacco USA contro l'Iran -colpevole di possedere armamenti nucleari-, che si prefigura tragico. L’incontro tra i due avviene segretamente all’interno delle stanze di una residenza ecclesiastica, tant’è che ad accoglierli è un sacerdote, interpretato dal bravo Bernardo Bruno. I due amici hanno preso strade diverse dopo la rivoluzione iraniana del 1979. Ambedue avevano partecipato alla caduta dello Scià, ma la direzione presa dalla nuova repubblica islamica guidata da Khomeinî, che portò all’inizio di nuove persecuzioni, determinò la fuga di Motahedeh, che divenne poi un mercante d’armi, mentre Kermani, guerrigliero d’ispirazione marxista come l'amico, si ritrovò a sostenere il clero sciita e la sharia. Martin -Roberto Alinghieri, lo stesso regista- è l’ambasciatore americano, anche lui porta i segni della rivoluzione islamica di Khomeinî. Faceva parte del gruppo di cinquanta diplomatici e funzionari presi in ostaggio dal nuovo governo in risposta alla mancata estradizione dall’America di Reza Pahlavi, lo Scià malato di cancro e rifugiato negli USA. Martin non dimentica. Nessuno di loro dimentica. Nessuno di loro si fida dell’altro. Eppure ognuno di loro è legato all’altro non soltanto per i ricordi comuni ma anche per riconoscenza: Motahedeh ha salvato Kermani che ha salvato Martin. Eppure la fiducia traballa. È una lotta tra istinto e ragione, come tra il Coyote e la Stella della canzone di Lucio Dalla, la cui musica si diffonde in sala tra una scena e l’altra:
E su una pietra i due stan nel fuoco della notte
a raccontarsi a turno con le voci calde o rotte
la stella parla adagio e il coyote grida forte
buttati in questo gioco, per chi perde c’è la morte.
(Lucio Dalla, Il Coyote)
Non c’è soltanto l’amicizia, il ricordo, l’orrore, in ballo ci sono migliaia di vite umane. Riusciranno a superare le paure, le memorie, l’odio e a salvare l’Iran dall’attacco USA?
L’ottimo testo è stato sviluppato scenograficamente in modo convincente. La scelta di una scena essenziale e sobria -un tavolo, delle sedie intorno e un vassoio colmo di pompelmi rosa, unica nota di colore in una scena volutamente ombrosa- e i movimenti coreografici di entrata e uscita degli interpreti sono da considerarsi la forza di questa rappresentazione, incentrata soprattutto sulla bravura degli attori e sull’intensità dei personaggi. La luce d’altronde è il più invadente oggetto scenico, in osmosi con l’azione non soltanto fisica ma anche mentale –chi ricorda, ad esempio, è rischiarato da un fascio luminoso che lo isola dal resto della scena e dagli altri personaggi, come se agli spettatori fosse concesso in quel modo di entrare in lui. La luce presenta i personaggi, li determina, li definisce, li risolve; e mette in evidenza l’oggetto più importante: un vassoio di pompelmi rosa, che il monaco continuamente sistema con un’azione quasi ossessivo-compulsiva. E quel vassoio diviene il modo silenzioso attraverso il quale i due amici mostrano il loro disprezzo nei confronti dell’apparentemente buono, dell’apparentemente leale, dell’apparentemente giusto, equo, retto, probo. Mentre il monaco si affanna a sistemare i pompelmi, loro continuamente rompono l’ordine con risentimento, sino al passaggio finale in cui Kermani getta per terra il vassoio ed esce di scena. Il monaco entra e raccoglie i pompelmi, li sistema nuovamente e ne butta via soltanto uno. Piccolo dramma per lui, per Kermani è invece la fine di una speranza.
Commedia da vedere, da ascoltare, da vivere, da sentire.
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Teatro Stabile di Genova – Sala Piccola Corte
Benedictus
di Motti Lerner
Versione italiana di Enrico Luttmann
Regia di Roberto Alinghieri
Produzione: Teatro Stabile di Genova
Con: Federico Vanni (Motahedeh), Alexander Perotto (Kermani), Roberto Alinghieri (Martin), Bernardo Bruno (Monaco).
Dal 15 al 19 maggio 2012