Affascina e convince la nuova produzione di Barrie Kosky, un ritratto naturalistico che analizza in modo emozionante i sentimenti dei protagonisti amplificandoli anche grazie alla scenografia. Applausi ai giovani interpreti dei ruoli principali.
Berlin, Komische Oper, “Eugene Onegin“ di Peter Iljitsch Tschaikowski
Onegin in giardino fra marmellate e betulle
Il regista australiano Barrie Kosky, attuale sovrintendente della Komische Oper di Berlino, è stato di recente nominato in Germania “regista dell’anno” e i suoi recenti allestimenti (dalla Rusalka “bitter” al Flauto magico “cartoon” da noi recensiti) ci hanno convinto per un taglio registico chiaro e coerente, capace di rendere l’opera immediatamente leggibile pur adottando sempre stilemi diversi. Il suo Eugene Onegin, allestimento che ha debuttato a Berlino lo scorso gennaio in coproduzione con Zurigo e ora è di nuovo in scena alla Komische Oper, è tradizionale e moderno al tempo stesso, poetico e sentimentale come vuole la musica di Tschaikowski, ma anche lucido e analitico nello scandagliare con precisione passioni e caratteri.
Kosky ambienta i primi due atti, rappresentati senza pause in quanto appartenenti a un’unica sequenza spazio-temporale, in un grande giardino dal prato erboso leggermente ondulato, delimitato da betulle ed alberi frondosi. Larina e la vecchia nutrice mettono la marmellata nei vasetti evocando il tempo andato, mentre le due fanciulle sognano l’amore: Olga rotolandosi languidamente sul prato in attesa di Lensky, Tatiana immersa nella lettura sdraiata sull’erba. Guardando la scena di Rebecca Ringst, illuminata dal perfetto variare di luci di Franck Evin, sembra di assistere a un film girato in esterni, per il realismo con cui è rappresentata la natura e la vita quotidiana in campagna in una lunga giornata estiva. In questo idillio bucolico, che ci rimanda con immediatezza alla struggente dolcezza della campagna russa vista attraverso gli occhi del cinema o della letteratura (Puskin, ma anche Cechov e Turgenev), il prato ruota e dal fondo del bosco entrano in scena le masse in abiti ottocenteschi che si dispongono sul prato per un “déjeuner sur l’herbe”, tableau vivant che fa da sfondo alle vicende dei protagonisti. Lo spazio scenico, molto gradevole all’occhio ed estremamente versatile, favorisce, grazie al ruotare della piattaforma e alla profondità di campo data dal bosco sullo sfondo, il movimento di singoli e masse che appaiono e scompaiono dalla scena con grande naturalezza in sintonia con la situazione drammatica e con la musica. Tatiana è una fanciulla introversa e la lettera la scrive copiando le frasi trovate in un libro, mentre il giardino si avvolge di brume notturne e sopra gli alberi s’intravede la luna. La scena è struggente per il modo febbrile con cui Tatiana strappa le pagine del libro alla ricerca di un’ispirazione o per come in piedi, immobile e tesa con le spalle rivolte agli spettatori, attende il suo tragico destino affidato a un biglietto infilato in un vasetto di marmellata che Onegin getterà in aria con fare irriverente leccandosi le dita. Senza soluzione di continuità, in un’escalation drammatica che vede montare il disagio di Lensky e Tatiana nell’idillio apparente del boschetto, si arriva al duello dei due amici che giungono ubriachi e barcollanti, perché incapaci di affrontare la catastrofe. Nel terzo atto una fredda architettura neoclassica posta sull’erba suggerisce l’interno del salotto del Principe dove, fra l’elegante nobiltà pietroburghese, spicca Tatiana divenuta un’affascinante zarina in un lungo abito da sera di velluto rosso. Servi di scena smontano a vista il palazzo per fare sì che l’incontro tra Tatiana e Onegin abbia di nuovo luogo in un giardino per marcare la specularità del rifiuto. Come in un film inizia a piovere per rendere il finale ancora più triste: Onegin cerca di trattenere Tatiana afferrandola per il vestito ma lei scappa via dissolvendosi nel bosco, mentre lui rimane disteso sull’erba bagnata sotto la pioggia battente.
Al centro del dramma ci sono quattro giovani: è risultato quindi assolutamente pertinente l’aver affidato tutti i ruoli principali a giovani cantanti che hanno saputo infondere grande verità scenica alla situazione. Ci è decisamente piaciuto l’Onegin di Günter Papendell per intensità scenica e per la voce scura e profonda, adatta a lasciar presagire un tragico destino, e il fraseggio curato necessario per delineare l’evoluzione del personaggio. Nadja Mchantaf è da poco nell’ensemble della Komische Oper ma si sta affermando, oltre che per meriti vocali, per una sensibilità interpretativa particolarmente adatta a mettere in scena la fragilità e il dissidio interiore: la sua è una Tatiana giovane, dalla voce fresca e luminosa, e anche per questo convince più nei primi due atti che non nel terzo, che vorrebbe una vocalità più matura e drammatica. Adrian Strooper è un Lensky naif e insicuro e anche la voce lirica di timbro chiaro si addice a esprimere una giovinezza spezzata: il suo addio alla vita è trasognato e malinconico. Dei quattro personaggi principali quello di Olga è il meno riuscito; Karolina Gumos infatti non spicca per caratterizzazione e anche la voce manca di rotondità. Ha solo un’aria, d’accordo, ma davvero toccante, e il Principe Gremin di Oenay Köse convince per gravitas e pienezza. Assolutamente perfetta la vecchia Filipjewna interpretata dalla sonora Margarita Nekrasova. Della Larina di Christiane Oertel si apprezza la presenza scenica naturale e comunicativa. Christoph Späth frequenta spesso l’operetta e non a caso il suo Triquet è leggero e pieno di humor.
Coinvolgente e appassionata la direzione di Ainars Rubikis che dirige sottolineando i climax e le impennate drammatiche con crescendi incisivi e roventi. La direzione privilegia con giusti colori e spessori la componente “narrativa” della vicenda, meno approfonditi i tocchi melanconici e gli elementi brillanti e decorativi della partitura.
Tantissimi applausi alla fine per una produzione riuscita che mette d’accordo tutti.
Visto a Berlino il 27/11/2016