Teatro

Berlino, Il giro di vite

Berlino, Il giro di vite

Berlin, Staatsoper im Schiller Theater, “The Turn of the Screw” di Benjamin Britten

Thrilling Screw

The Turn of the Screw di Benjamin Britten, tratta dall’omonimo romanzo di Henry James, è un’opera sul non detto che si avvita su sé stessa: il segreto, se c’è, non viene rivelato e sta allo spettatore dare una propria chiave interpretativa.
Claus Guth è regista incline a indagare comportamenti e psiche dei personaggi che mette in scena e che porta a una situazione limite che ha analogie con i meccanismi del thriller.
Troppo facile e sicuro  affidare a lui la realizzazione del nuovo allestimento dell’opera per la Staatsoper di Berlino? Guth crea uno psychothriller che inchioda, ma senza fantasmi: basta il sospetto di un male passato e un soggetto predisposto alla follia se esposto a sollecitazioni indirette.

La messa in scena dell’antefatto, ovvero il rapido incontro fra un’istitutrice stagionata e uno zio avvenente, mostra il risveglio di una sessualità latente e repressa che “in absentia”, nella claustrofobica dimora di campagna di Bly, verrà trasferita dallo zio al di lui nipote. Anche perché i due bambini – e questa è un’ottima intuizione -  sono interpretati da giovani adulti dalla sessualità acerba e perturbante: Miles è un essere androgino nell’aspetto e nella voce (da controtenore), Flora è una marinaretta maliziosa col frustino in mano che lascia supporre giochi poco innocenti. Gli spiriti cantano fuori scena, ma sono “doppiati” dal labiale dei due fratelli seduti a tavola o rappresentati da replicanti bambini che sulle membra gracili e infantili hanno le teste smisurate di Quint o Miss Jessel: mostri dalle proporzioni distorte che rivelano le allucinazioni della protagonista.
Dietro il perbenismo proprio dell’ambientazione anni ’50 e le buone maniere alto borghesi (stare composti a tavola, andare a messa, coccolare un coniglietto bianco) si svelano risvolti sadici e morbosi che non risparmiano nemmeno la solitamente bonaria Mrs. Grose che qui prova una qualche attrazione per l’istitutrice. O è una fantasia di quest’ultima?  Potrebbe essere, oppure no.  L’ambivalenza è evidente nella scena finale, dove l’istitutrice sembra strozzare (o forse forzare a un abbraccio non voluto)  Miles per fargli confessare il nome del persecutore e quel “you devil” sembra indicare, più che Quint, la demoniaca governante che, dopo la morte del ragazzo, siede composta a tavola sorseggiando del vino compiaciuta.

Perfetto l’impianto scenico ideato da Christian Schmidt che accentua l’aspetto labirintico di una situazione sfuggente che non conduce da nessuna parte: quattro stanze e un corridoio che ruotano sempre uguali, ma che sembrano ogni volta diverse, su cui si aprono numerose porte che consentono ai personaggi di sparire in un “nowhere”. Le boiseries e il rosso cupo delle pareti donano un’eleganza inglese agli ambienti caratterizzati da minimi arredi: una panca, un letto di ferro, una tavola imbandita, un’altalena che scende dall’alto. Tutto avviene in un interno e anche le luci di Sebastian Alphons sembrano ribadire la claustrofobia di una dimora immersa in un buio metaforico, illuminata dalle luci artificiali delle appliques, con larghe zone d’ombra.
L’opera è rappresentata senza pause in una soluzione di continuità scenica e drammatica che nega la possibilità a spettatore e protagonista di fermarsi e prendere fiato per rielaborare gli “indizi”.

Da lodare le straordinarie doti attoriali e la recitazione curata allo spasimo di un cast praticamente perfetto. Grande protagonista l’Istitutrice di Emma Bell, abbottonatissima nel cappottino nero bon ton, dal volto cereo e gli occhi sgranati a spiare morbosi segreti per poi abbandonarsi a sfiorarsi le guance o strusciare le gambe sognando maschili carezze. La voce estesa è estremamente mobile e si piega a scandagliare i meandri del dubbio e ad esprimere un’isteria latente che sfocia nella pazzia e nell’omicidio.
La Mrs Grose di Marie McLaughlin è meno briosa del solito e ha un chiacchiericcio allusivo ed inquietante. Ci ha letteralmente conquistato il Miles sfuggente e ambiguo di Thomas Lichtencker; se pur sia austriaco, ha una fisicità da inglese doc e la chiara voce controtenorile è di  levigatezza ipnotica. Sonia Granè è una Flora di voce argentina, veste alla marinara ma il caschetto nero e una certa irriverenza giustificano cattivi pensieri. Le voci dei due spiriti vengono restituite alla sala tramite altoparlanti che ne potenziano lo straniamento: Richard Croft è un Quint diabolico e Anna Samuil è una Miss Jessel di voce piena.

Ivor Bolton guida gli elementi della Staatskapelle con una lettura di cameristica precisione che non ricerca il facile effetto, ma che sottolinea tutta la mobilità ritmica della partitura. Insolito rilievo hanno i momenti di indugio che dilatano l’inquietudine e scolpiscono l’inespresso.

Meritatissimo successo alla prima per una produzione fedele allo spirito dell’opera nel profondo.

Visto a Berlino, Staatsoper im Schiller Theater, il 15 novembre 2014