Teatro

Brussels, Orfeo ed Euridice

Brussels, Orfeo ed Euridice

Bruxelles, La Monnaie, Orphée et Eurydice di Christoph Willibald Gluck   

Histoire d’E

Il mito eterno di Orfeo ed Euridice, focalizzato attorno a due elementi ineluttabili del destino umano, amore e morte, da rappresentare in parallelo con il dramma reale di una donna in coma: questa è la premessa dell’esperienza a cui ci invita Romeo Castellucci, il regista della nuova produzione di  “Orphée et Eurydice” nella versione francese di Hector Berlioz per la Monnaie.

La sala del teatro è collegata in diretta tramite una rete wifi a una camera d’ospedale dove da un anno e mezzo giace paralizzata una giovane donna colpita da una sindrome rara che, a eccezione degli occhi, paralizza tutto il corpo senza pregiudicarne la sfera sensoriale. Els , così si è deciso di chiamare la donna, vede, ascolta, è sensibile al tatto e ricorda.
Tramite una cuffia Els ascolta in diretta l’opera di Gluck e l’amoroso canto di Orphée, in piedi nella scena vuota con le spalle rivolte a uno schermo che occupa tutta la parete di fondo su cui scorrono come titoli di coda testi che raccontano il vissuto della donna: l’infanzia, l’amore con Daniel, la nascita dei due figli, il coma.
Il canto di Orphée si carica nel contesto di una portata emotiva  straordinaria e si fa tramite del punto di vista del marito Daniel e del suo dramma. La quasi immobilità di Orphée davanti al microfono traduce una situazione bloccata e senza scampo di cui vengono rappresentate le emozioni del profondo senza inutili ornamenti visivi; anche il coro è dietro le quinte a negare la componente coreografica forte prevista dall’opera, ma qui ritenuta superflua ed esteriore.
Può risultare difficile per lo spettatore leggere le note biografiche e contemporaneamente seguire le parole del libretto sui monitor laterali, ma il parallelismo delle due situazioni ai confini fra vita e morte s’impone con assoluta evidenza e si percepisce con una forza inaudita il dolore di un amore perduto e la vanità di un’attesa che la musica cadenzata e “ripetitiva” di Gluck rende ancora più esasperante.

Con una diretta video realizzata tramite satellite (video di Vincent Pinckaers) inizia il viaggio verso gli “inferi” che ci porterà da lei e più che mai temiamo il momento del confronto con lo sguardo di Eurydice/ Els: del primo ci è nota la sventura su Orphée determinata dall’infrazione al divieto divino, ma cosa susciterà in noi lo sguardo di Els, la sua unica possibilità di comunicazione? Il percorso video ci rimanda in diretta immagini grigie e sfuocate, ma non per questo meno reali, di macchine, strade, alberi, corridoi di ospedale e, dopo un tempo che sembra interminabile, entra nella camera  416 e vediamo la mano di Els immobile sul lenzuolo seguita da un primo piano della cuffia con cui “ci” ascolta. Non è ancora tempo di vedere il volto, la telecamera indulge con delicatezza sugli oggetti presenti nella stanza, fotografie, disegni, giocattoli infantili, uno spazio vissuto dalla famiglia durante le ore di visita e una rappresentazione della memoria che la sindrome “locked up” non riesce a cancellare.
Eurydice appare incastonata in dissolvenza dietro lo schermo, quasi sospesa fra Els e Orphée,  ed è allora che vediamo gli occhi di Els in primo piano sullo schermo, limpidi e azzurri, con le ciglia che fremono. Reggere lo sguardo di Els è difficile quanto resistere al pianto di Eurydice, non può che seguire un’oscurità totale metafora di una perdita insopportabile.
Amore  riporta con una fiaccola-flebo  la luce e proiezioni 3D (ideate da Apparati Effimeri) ricreano con sapiente artifizio tecnologico la magia di un boschetto generato da proiezioni sovrapposte dove una controfigura di Eurydice si bagna nuda fra le acque. A differenza del mito classico, l’opera di Gluck si conclude felicemente con il trionfo dell’amore, ma qui il lieto fine viene inevitabilmente sospeso pro tempore ed è risolto come una rêverie bucolica che si dissolve per cedere posto alla realtà: il primo piano del braccio tatuato di Daniel che toglie la cuffia ad Els (immagine forte allusiva alla difficile scelta di “staccare la spina”) per poi accarezzarle i capelli con tenerezza.
La musica tace e la telecamera si allontana discreta restituendo a Els la sua intimità.
Quello che ci sembrava essere sulla carta un esperimento artistico dal voyeurismo eticamente inaccettabile si è risolto in un’esperienza interiore profonda veicolata dal canto. Potenza del mito di Orfeo e della capacità emotiva del suo melos, tutto torna.

Ci è piaciuta molto Stéphanie D’Oustrac per la sensibilità che ha saputo infondere al canto di Orphée. Fin dalle prime battute si è percepita una forte immedesimazione ed è stato evitato ogni capriccio belcantistico “esteriore” ed ornamentale a favore di un canto sincero, per certi versi spoglio e riservato. La voce di bel timbro ha un registro centrale pieno e nella versione francese si apprezza la declamazione scolpita con accenti di raciniana nitidezza. Una dolce mestizia percorre la scena dei Campi Elisi, evocati nel ricordo di un’armonia perduta e “Que ferais-je  sans Eurydice” cantato nel buio totale esprime la disperazione con pudore, quasi a non volere rendere evidente a Els il dolore di Daniel.
Bene anche l’Eurydice di Sabine Devieilhe. La voce è luminosa e molto musicale, dai fiati ben controllati ed il fraseggio sensibile.
In questa edizione il ruolo di Amore è stato affidato alla voce bianca di Michèle Bréant e, se la scelta suscita qualche perplessità sul piano musicale per la timbrica particolare e imprecisioni esecutive, funziona a livello drammatico in quanto dà voce ai bambini di Els.

Non ci ha sempre convinto la direzione di Hervé Niquet, soprattutto nell’ouverture, per le sonorità troppo forti e caricate e quindi stridenti con il dramma interiore messo in scena da Castellucci. Bisogna però aggiungere che la versione proposta a Bruxelles è quella di Hector Berlioz, che ritoccò la limpida partitura di Gluck adattandola al gusto del tempo con un impasto cromatico tardoromantico e sonorità “pompier”.
Buona per affiatamento e precisione la prova del coro diretto da Martino Faggiani.

Applausi commossi alla fine per un’esperienza che tocca le corde del profondo.

Visto a Bruxelles, teatro La Monnaie, il 22 giugno 2014

Ilaria Bellini