Teatro

Bucarest, George Enescu festival 2011

Bucarest, George Enescu festival 2011

Il grande musicista romeno George Enescu (1881-1955) fu un esempio di non comune poliedricità: violinista di altissimo livello (ma anche ottimo pianista), componente di trii e quartetti di eccellenza, fu pure un valido direttore d'orchestra e soprattutto un prolifico compositore, che movendo da palesi influenze wagneriane e brahmsiane passò poi ad abbeverarsi alle fonti popolari della sua patria, facendone la base della sua ispirazione. Non a caso, è considerato il fondatore della scuola nazionale rumena, alimentata nel tempo anche dai vincitori del Premio nazionale di composizione da lui fondato. A lui è intitolato anche un Festival giunto nel 2011 ormai alla sua ventesima edizione, ancora in corso a Bucarest (con qualche propaggine in alcune altre città romene) sino a fine settembre; un festival che per la sua ricchezza dimostra al di là d'ogni dubbio la conquista di un ruolo di spiccata rilevanza nel panorama delle manifestazioni di livello mondiale. Basta prendere in mano il suo cartellone, notevole non tanto per l'imponente numero di eventi musicali presentati nelle varie sale da concerto - da un minimo quattro ad un massimo di sei al giorno, e questo per tutto il mese di settembre - quanto per la incredibile varietà di offerte che vanno dalla musica antica a quella contemporanea (persino concedendosi qualche incursione extra-territoriale nella 'world music'), senza trascurare di dare il giusto spazio per l'opera e per il balletto. Per non parlare poi dell'altissimo livello degli esecutori provenienti da tutto il mondo: una interminabile lista di solisti di assoluta eccellenza, numerose e prestigiose formazioni da camera e sinfoniche, direttori di fama, compagnie di ballo di livello internazionale. Citarli tutti sarebbe veramente impossibile, dalla "A " di Antonio Pappano alla "Z" di Zacharias Christian. Insomma, il passaporto ideale  per far conoscere un'intera nazione, la Romania, la quale in campo culturale ed artistico sta progredendo con passi veramente da gigante.
Presenti alle tre giornate inaugurali, abbiamo partecipato a due splendidi concerti sinfonici serali dell'Orchestra Filarmonica dell'Aja diretta da Christian Badea nella smisurata Sala Grande del Palazzo Reale, davanti a migliaia di spettatori; i rispettivi programmi comprendevano il primo un doveroso omaggio ad Enescu con la Sinfonia n. 1 op. 13, e la Decima Sinfonia op. 93 di Šostakovič, mentre il secondo registrava la prima assoluta di Atlantis, lavoro orchestrale del compositore romeno Dan Dediu (già vincitore del Concorso Enescu 1991 per la composizione), il Concerto per piano di Grieg (solista Dan Grigore) e la Sinfonia fantastica di Berlioz. Eccezionale l'orchestra olandese, autorevole ed attento il direttore bucarestino, ben noto da noi per l'assidua presenza in Italia e per la decennale direzione del Festival di Spoleto. Ma abbiamo anche apprezzato due concerti serali - i primi dei tanti "Concerti di mezzanotte" - nella grande sala dell'Ateneo Romeno, con l'Austrian Baroque Company e il soprano catalano Nuria Nurial, con una locandina imperniata su arie di Haëndel e brani strumentali di vari autori; e con la Venice Baroque Orchestra e il violino di Giuliano Carmignola, impegnati in un programma nel quale spiccavano concerti di Vivaldi e Tartini.
Nella monumentale vastità dell'Opera Nazionale - oppressi ohimè da un'afa quasi insopportabile - abbiamo assistito invece alla prima delle tre opere in cartellone ("Oedipe" di Enescu ed "Eugenio Oneghin" di Čiakovskij sono le altre due), vale a dire il "Lohengrin" nel nuovo allestimento appositamente approntato dal regista Ştefan Neagrǎu. Un titolo fondamentale, quello wagneriano, che a Bucarest stranamente non s'era visto rappresentare dal lontanissimo 1921. Valide le geometriche scenografie disegnate da Adriana Urmuzescu, impostate su una serie di grandi triangoli luminosi adagiati a terra, che si componevano e scomponevano creando diverse combinazioni di forme; incisivo e determinante l'impiego delle luci, anche con qualche effetto laser; luci molto forti che ad esempio avvolgevano Telramund e Ortud isolandoli in una freddo fascio verde - il colore del tradimento e del veleno - mentre Lohengrin ed Elsa venivano sempre rischiarati da calde tonalità solari. Lo stesso valeva per i costumi, sempre creati dalla Urmuzescu: tutti neri per i due 'cattivi', tutti candidi per i due 'buoni'. Bruttini e banali invece gli abiti degli altri personaggi, compreso Heinrich ed i suoi cavalieri, mezzo rossi e mezzo dorati; oppure, nel caso delle dame, mezzo bianchi e mezzo dorati, con curiosi copricapo. Ma sempre di un dorato artificiale si trattava, che sapeva decisamente di plastica. Ad ogni modo Ştefan Neagrǎu ha messo in piedi una concezione registica coerente e fluida, molto funzionale allo scopo; resterebbe da criticare solo qualche immobilismo nelle masse corali. Cristian Mandeal ha diretto con polso fermo e trascinante comunicativa, mostrando una visione monumentale e plastica della partitura wagneriana. Dalla sua parte stava il poter sfruttare un'orchestra di buon livello, quella dell'Opera Nazionale, e contare sul suo efficiente e preparatissimo coro: ricordiamoci, a questo proposito, che il "Lohengrin" è una delle opere più difficili e impegnative per le compagini corali. Così Mandeal ha impostato un dialogo drammatico e potente con le voci, preferendo però la via di una lettura più lirica che declamatoria, e ha saputo dominare con accortezza - e con turgida passione - le pagine strumentali come il Preludio iniziale. Momento che, tra l'altro, è stato pensato registicamente come narrazione diretta e mimata degli antefatti della vicenda, la trasformazione cioè del giovane Gottfried in cigno, a causa delle arti magiche di Ortrud. Il tenore sud africano - ma austriaco d'adozione - Johan Botha appariva un Lohengrin affaticato e poco eroico, per il timbro opaco e povero negli acuti e nelle sfumature. Il soprano statunitense Emily Maggee è stata invece un' Elsa veramente pregevole: linea di canto impeccabile, ferma nel suono, luminosa nel timbro; e il suo personaggio stava in giusto equilibrio tra una visione angelicata della vergine innocente e le inquietudini sensuali di una giovane sposa. Emissione con suoni corti e fissi, povertà di emozioni e qualche eccessiva isteria nella Ortrud del mezzosoprano tedesco Petra Lang; ammirevole il Telramund del baritono romeno Valentin Vasiliu, che ha messo in campo un fraseggio possente, attraversato da sinistri bagliori, dando vita ad un personaggio massiccio ed aggressivo, ma mai troppo tracotante. Vacillante nell'emissione e modesto vocalmente l'Heinrich del basso Horia Sandu, un po' compassato ma senza mende l'Araldo di Vasile Chişiu.