Quando si parla di “Orfeo ed Euridice” di C.W.Gluck, bisogna innanzitutto precisare di quale delle due sue fondamentali versioni si va a trattare. Per questa edizione del 39° Cantiere di Montepulciano ci siamo trovati di fronte alla più sobria, primissima edizione presentata a Vienna nel 1762, quella che vedeva quale protagonista il formidabile castrato Guadagni. Che qui è stata eseguita però nell’edizione a stampa edita da Ricordi per la ripresa scaligera del 1889; quindi, in una trasposizione in italiano (traducendo i versi francesi) contaminata dalla versione Berlioz 1859, che ‘revisionava’ a sua volta la versione parigina del 1774, arricchita di nuovi versi e nuove musiche: un’edizione insomma alquanto pasticciata che comunque, a dispetto d’ogni aspirazione filologica, rimane tutt’oggi lo si voglia o no la più rappresentata in teatro. Resta di base comunque la stupenda musica di Gluck, anche se con qualche taglio; e questo in parte ci consolerebbe, se la sua esecuzione fosse stata nell’insieme impeccabile: cosa che, come vedremo, non si è purtroppo del tutto verificata.
Cantiere d’Arte vuol dire anche qualche pizzico di sperimentazione: e così come l’anno scorso ci è stata presentata una curiosa “Carmen” in dimensioni ‘da camera’, modificata nella drammaturgia e con la partitura di Bizet riscritta per un piccolo ensamble, quest’anno si è affidata la regia di questo “Orfeo” a Stefano Simone Pintor, che negli anni recenti, dopo aver lavorato come assistente di personaggi controcorrente come Robert Carsen, Damiano Michieletto e Franco Michieli, ha intrapreso una strada tutta sua, come stanno a indicare i recenti “Aida” e“Il flauto magico” realizzati per l’As.Li.Co.. Dunque, una regia che va partendo già da un presupposto di voluta modernità: ed in effetti, come abbiamo potuto constatare al Teatro Poliziano, il suo Orfeo non è più l’agreste, aulico aedo che incanta le fiere con il suo canto, bensì una moderna rock-star dai tratti vagamente hippies, munita ovviamente di chitarra elettrica; e come tale ci viene subito presentata in un lungo flash-back che scorre davanti ai nostri occhi durante tutta l’ouverture. E’ una serie di spezzoni realizzata alternando immagini di repertorio degli Anni ’60-’70 del secolo passato, tra reminescenze di “Easy Reader” e di “Woodstock”, con curiose incursioni in Val d’Orcia dove, tra lunghi filari di viti, Orfeo incontra finalmente la sua Euridice. E dopo un’informale cerimonia di nozze – uno scambio di collanine ed un giuramento di fedeltà dinanzi all’altare di una solitaria chiesa - i due si avviano verso un radioso avvenire a bordo di una rossa Alfa Romeo; ma il Fato è in agguato, e per la troppa velocità il loro bolide si schianta su un’albero. E’ di qui che di fatto prende inizio l’opera, mostrandoci l’auto rovesciata, lo sgomento di Orfeo ed i primi, inutili soccorsi medici per la sventurata giovane. E’ in fondo la mitica e tragica fine di James Dean che ritorna sempre, e questo spunto d’avvio, in realtà, non è affatto nuovo: più o meno la medesima idea l’ebbero i fratelli David e Frédérico Alagna in “Orphée et Eurydice” presentato nel 2008 al Teatro Comunale di Bologna, protagonista il fratello Roberto, spettacolo che iniziava appunto con Euridice perita in un incidente d’auto dopo i festeggiamenti nuziali. Sia come sia, di qui in avanti la storia esposta e narrata da Pintor scorre in avanti senza intoppi, servita da una serie di buone intuizioni drammaturgiche, e funziona egregiamente; ed i personaggi presentati in abiti più o meno moderni – le "furie, larve, ombre sdegnose" degli Inferi sono ad esmpio vestite da avvocati, magistrati e poliziotti – sembrano calzare sempre a pennello sul testo.
Lo statuario contralto tedesco Silke Marchefeld era un Orfeo più che accettabile, ben calato nella parte anche fisicamente: voce matura, timbro gradevole, medi pieni e gravi di giusta consistenza, fraseggio sempre fluido e sempre pertinente (l’assidua frequentazione del repertorio classico/antico si sente). Corretta vocalmente, ma a tratti un tantino petulante nella sua performance l’Euridice del soprano inglese Roma Loukes; leggerina nel peso, con voce quasi da soubrette, il soprano gallese Georgina Louise Stalbow che abbiamo visto calata nell’alata figura di Amore. Nelle prime due date di questo “Orfeo ed Euridice”concertava e dirigeva Roland Böer, responsabile musicale del Cantiere d’Arte che nella terza recita – quella domenicale, alla quale abbiamo avuto modo d’assistere - ha ceduto la bacchetta al suo giovane assistente Gabriele Centorbi. La buona volontà c’era, da parte sua, ma quello che avviliva e dava impiccio era la frequente imprecisione negli attacchi e nelle frasi da parte dell’Orchestra Poliziana, formata in massima parte da giovani allievi dell’Istituto di Musica di Montepulciano, oltre che di altri istituti del Senese. Anche la Corale Poliziana preparata da Judy Diodato non è parsa sempre adamantina, perdendosi qua e là in qualche clamore di troppo.
Non c’è molto da dire della scenografia, consistente solo nella rossa auto rovesciata, il parabrezza attraversato da un albero, con la scritta “Just married” sul lunotto posteriore; ma tenuto conto dell’estrema esiguità del palcoscenico del Poliziano, di più non era forse possibile fare. Gli interventi video di Virginio Levrio, Gregorio Zurla e Pintor stesso, proiettati sul fastidioso velatino che separava palco e platea, davano in compenso alla narrazione qualche nota di varietà. I costumi di taglio moderno erano a firma di Noémie Grottini; le scarne coreografie di Maria Stella Poggioni erano eseguite da componenti de L’École du ballet.