Come ha acutamente osservato Massimo Mila, tra tutte le opere di Verdi “Un ballo in maschera” è l’unica nella quale uno schietto e intenso rapporto d’amore – rapporto tanto più appassionato, quanto più proibito - si trovi veramente collocato al centro di tutta l’azione, e ne costituisca l’effettivo motore. Ancora in “Luisa Miller” e in “Rigoletto”, e più avanti nel “Simon Boccanegra”, il punto focale della vicenda è un amore famigliare, ed in particolare un rapporto più o meno problematico tra padre e figlia. Nella “Traviata” poi, il tema centrale non è tanto l’attrazione tra Alfredo e Violetta che pure attraversa tutta l’opera, quanto quello della sua redenzione morale attraverso una virtuosa rinuncia da parte di quest’ultima, che cerca nel contempo rifugio e consolazione negli affetti familiari: «Qual figlia m’abbracciate!» è infatti l’invocazione accorata che la giovane indirizza al vecchio Germont. Quanto al “Trovatore”, ben poco tempo trovano Manrico e Leonora per parlar d’amore, pur se attratti da una reciproca, fatale attrazione. Il primo sempre alla ricerca di una identità e di un rapporto materno sfuggente, la seconda impegnata a sottrarsi alle profferte prima, ed alle violenze poi del Conte di Luna. Non è un caso che al momento di godere finalmente del frutto d’amore, Manrico si debba precipitar fuor di scena per correre a salvare la madre dal rogo; il che richiama alla mente altre nozze, da altri amanti sfortunati non consumate: quelle cioè di Ernani e Elvira, amanti divisi per l’eternità dal sinistro risuonare del corno dato in pegno a Silva. Ci voleva insomma la penna del Somma per farci avere all’interno de “Un ballo in maschera” il più compiuto ed ampio duetto d’amore ricreato in musica dall’estro di Verdi: vale a dire quel gradiente di rivelazioni, di confessioni reciproche (“Di’ che m’ami…Ebben, sì, t’amo”) e di rapimenti estatici che corrono tra Riccardo e Amelia. Situazione intensissima che ne occupa la sezione centrale, ponendosi quale perno ideale di tutto il resto, un po’ come accade – fatte le debite proporzioni - con lo smisurato duetto d’amore del “Tristano e Isotta”.
Ricorrendo alle parole di Gabriele Baldini, in questo caso «Verdi prende una volta per tutte possesso di questo tema straordinario (…) e, come sentendosene alfine vaccinato, da allora in poi lo abbandona definitivamente, per tornare ai più sedati anche se furenti affetti famigliari, all’amicizia, alle gelosie, alle ripulse, ai tradimenti e alla passione politica, o magari alla più scoperta libidine, tanto scoperta da apparire soltanto un meccanismo naturale, e quindi persino casta». Un pallido tentativo di porre nuovamente gli ‘amorosi sensi’ al centro d’una vicenda alquanto intricata lo ritroviamo anni dopo ne “La forza del destino”; ma con un tenore ed un soprano che stanno insieme una manciata di minuti ad inizio d’opera (con la funesta conseguenza d’ammazzare per errore un padre); ed altrettanti a calar di sipario (non prima però d’aver passato a fil di spada un fratello). Ma quello tra Alvaro e Leonora è un discorrere stralunato tra un’eremita destinata alla consunzione ed un monaco dai tratti singolari, sfiniti entrambi dalle vicissitudini della vita; e non certo un tenero interloquire tra due focosi amanti. Almeno Aida e Radamès, nel chiuso della loro ferale tomba, possono dar libero sfogo alla loro passione prima di passare a miglior vita…
Ahimè, forse mi sono dilungato troppo, ma i lettori spero mi perdoneranno tanto divagare suggerito dall’apertura della stagione 2013 del Teatro Massimo Bellini di Catania. Inaugurazione dedicata appunto ad “Un ballo in maschera”, in una sala gremitissima ed elegantissima. Il teatro siciliano ha ripreso per l’occasione il bell’allestimento presentato una decina anni fa al Filarmonico di Verona (dirigeva allora Julian Kovatchev) con le scene di Raffaele Del Savio e gli abiti di Alberto Spiazzi. Un insieme decisamente estremamente tradizionale, che prevede ambienti ricostruiti con una certa verosimiglianza storica: spaziosi saloni lignei illuminati da grandi vetrate colorate, riscaldati da imponenti camini e con grandi ritratti appesi alle pareti; e con bei costumi storici appropriati, che paiono ripresi dai grandi teleri di Rembrandt. L’ipotetica Boston di fine Seicento è dunque resa tutta allo spettatore, ma senza per questo rinunciare ad un pizzico di libertà e di fantasia. Molto riuscita in particolare la scena dell’accampamento di Ulrica – una zingara dalla fulva criniera - che tuttavia, nella messinscena veronese che ricordo bene, si avvaleva di un felice gioco di luci e di trasparenze che qui è invece mancato. La regia un tempo affidata a Beppe De Tomasi è toccata qui a Luca Verdone il quale ha applicato puntualmente, senza divagare, le didascalie ed i suggerimenti del libretto aggiungendo appena qualche cosa di suo; così lo spettacolo sotto le sue mani ha corso sui binari diritto sino alla fine, senza deragliare, tranquillo come un trenino di provincia.
Josè Cura era presente non nella veste di cantante, bensì in quella di direttore dell’Orchestra del Massimo. Non ha fatto errori – a parte qualche clangore strumentale di troppo che talora eclissava le voci – ma non ha neppure fatto vibrare il nostro cuore. Non abbiamo intravisto invenzioni d’atmosfere, né grande ricerca di colori, neppure una vera tensione drammatica; ma solo una discreta dialettica con i cantanti e la briglia tenuta tesa all’orchestra. Una direzione di routine, insomma, senza infamia né gloria.
Dimitra Theodossiou, che ha debuttato l’impegnativa parte di Amelia solo un paio di mesi fa al Sociale di Rovigo, ha confermato in terra siciliana la naturale congenialità a questo ruolo per l’adesione psicologica, per la dolcezza timbrica, per la facilità di legato, per la felice scansione delle frasi, per abbandono spontaneo allo sgorgare del canto. Prestazione notevole dunque, con luminosi acuti e docili gravi, nell’ambito d’una emissione ovunque ben controllata; e il rispetto per le annotazioni d'espressione mi è parso come sempre scrupoloso. Grande dunque, il soprano greco, nello spaventoso cimento dell’orrido campo, con tutti i suoi sussulti di terrore; ed estremamente toccante nell’invocare l’altrui pietà in «Morrò, ma prima in grazia». A vestire i panni di Riccardo era Marcello Giordani, con tutte quelle qualità che lo fanno amare dai fans: un timbro rilucente e bronzeo, un'emissione generosa in tutta la tessitura, un fraseggio colorito e dalle belle sfumature; di contro, una certa qual scarsa resa psicologica di questa figura trattata all'insegna di una certa monotonia, e direi quasi con disinteresse. Un vero peccato perché con maggiore considerazione del personaggio tanta dovizia vocale darebbe altri risultati interpretativi: lo si è visto proprio dove non basta far bella voce ma far anche opera di approfondimento psicologico, come nell’intenso duetto con Amelia – dove la Theodossiou vince due a zero - e nel meditabondo a solo di «Forse la soglia attinse», scivolato via un po’ banalmente.
Altro discorso per Piero Terranova, baritono non solo carico di autorevolezza vocale – la voce è calda e robusta, con un bel timbro ed un’emissione ben distribuita su tutta la gamma - ma anche di spiccata personalità. Il suo Renato era infatti teatralmente vivo e riuscito, sia nella franche manifestazioni d’amistà rivolte a Riccardo, sia nella macerazione dello sposo tradito espressa nella lunga scena che lo vede grande protagonista, dall’invettiva spietata di «A tal colpa è nullo il pianto» sino all’amarezza riposta di «Eri tu che macchiavi…».
Ulrica era il mezzosoprano italoamericano Nicole Piccolomini: il registro medio-grave tiene bene, evitando indebite vociferazioni, ma le mezzevoci non è che s’avvertano granché; tiene bene la scena, ma dal punto di vista vocale il suo è un personaggio lasciato a metà. Manuela Cucuccio riesce ad evitare con intelligente condotta le petulanze che talora affliggono il figurino di Oscar; cantando con grazia e con bella espressività le tre ariette che le sono affidate, rendendo intatta l’esuberanza giovanile che è connaturale ad un giovane ed irriflessivo paggio di corte. Non memorabile il Silvano di Angelo Nardinocchi; cavernosi nel suono e poco intelligibili Samuel e Tom, i due congiurati affidati ai bassi Paolo La Delfa e Concetto Rametta. Il giudice ed il servo di Amelia erano impersonati da Alfio Marletta.
Corretti gli interventi del coro del Teatro Massimo, come sempre ben preparato da Tiziana Carlini.
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