Teatro

Che fine ha fatto la piccola Irene?/Cavalleria Rusticana. Trionfo e débâcle

Che fine ha fatto la piccola Irene?/Cavalleria Rusticana. Trionfo e débâcle

Ad accompagnare il melodramma di Pietro Mascagni è di solito l'opera Pagliacci di Ruggero Leoncavallo. Non al Carlo Felice però, almeno per questa volta. È stata Che fine ha fatto la piccola Irene? -opera da camera in un atto di Marco Betta, il cui libretto di Rocco Mortelliti è tratto dall'omonimo racconto di Andrea Camilleri- a essere abbinata a Cavelleria Rusticana. La storia è quella di una donna, Laura Spoto, che crede ancora viva la figlia Irene, scomparsa da molti anni. Emerge l'umanità del commissario Collura -meno noto del celebre Montalbano, ma pur sempre di camilleriana fattura-, che si occupa dell'indagine. L'opera è andata in scena la prima volta nel 2003. Era invece il 1890 quando Cavalleria rusticana debuttò a Roma con un successo inaspettato. Il libretto era tratto dall'omonima novella di Verga. Un'altra storia siciliana, in un altro tempo, con un altro tipo di amore narrato: quello impossibile tra Turiddu e Lola. E siciliano è il regista al Carlo Felice. Proprio lui, Camilleri. Almeno l’idea registica è sua, tradotta poi dallo stesso Mortelliti.
Ma alla prima del debutto del dittico, il 18 maggio 2012, al trionfo di Cavalleria rusticana è corrisposta la débâcle dell’altra. Una sofferenza durata una cinquantina di minuti in cui il gelo del pubblico di tanto in tanto si scioglieva in qualche basta! e diversi sospiri. Quando il sipario si è chiuso, il timido applauso -accompagnato comunque dai fischi e da qualche complimento abbastanza sarcastico- ha dimostrato che la disfatta non è stata totale. La ragione è soltanto una: Andrea Camilleri. L’amore che i genovesi hanno nei confronti del grande scrittore è tale che ha loro impedito di sommergere l’opera di fischi. Il libretto di Rocco Mortelliti Che fine ha fatto la piccola Irene? è, come abbiamo detto, tratto da un racconto di Andrea Camilleri. Di fatto il coinvolgimento dello scrittore è stata la fortuna dell’opera, altrimenti a conclusione non si sarebbe potuto riaprire il sipario. Forse non si è tenuto in debito conto che i cantanti lirici non sono interpreti teatrali qualsiasi. I loro movimenti sono costretti dalla necessità della potente emissione e modulazione di fiato per il cantato, la cui estrema difficoltà limita l’azione scenica e crea anche una “deformazione professionale”. Non sono attori, insomma, almeno per come intendiamo gli interpreti del teatro di prosa. L’opera di Betta prevede una buona parte di recitativo, alternato ad arie e ariosi. Così sul palco oltre ad ascoltare una musica che a tratti sembrava dodecafonica e a tratti scompariva del tutto, ci siamo ritrovati dei “cattivi” attori, che allorquando cantavano erano alla lettera sommersi dai suoni provenienti dalla buca. L’incerta linea melodica peraltro non ha permesso l’individuazione di veri e propri temi. Il genere operistico proposto da Betta è il Singspiel, nato nel XVIII secolo e anticipazione dell’operetta. Epperò: nessuna vivacità musicale, nessuna immediata godibilità, nessun brano che frulla in testa. Soltanto il fastidio di quel recitativo da dilettanti, lontano anni luce dal teatro di prosa, di quei movimenti abbandonati a se stessi da una musica che spesso si traduceva in unici suoni indistinti privi di qualsiasi accenno melodico. Insomma una disfatta, se la vogliamo dire tutta. Se questo è il modo per far evolvere l’opera lirica, per andare oltre il melodramma, non ci siamo proprio. È piuttosto un ritorno indietro. Sì, al tempo del Singspiel, ma di certo non quello di Mozart. Magari le nostre orecchie non sono abituate, ma ci si augura davvero che mai si abitueranno e soprattutto ci si augura che non arrivi qualcuno a spiegarci che gli abiti dell’imperatore sono bellissimi. No, assolutamente no: il re è decisamente nudo. E se proprio vogliamo salvare qualcosa di quest’opera, salverei l’aria finale Chi troppu e chi nenti e la voce del nostro amato Camilleri che introduce e chiude l’operina.

A questa disfatta, si diceva, corrisponde il trionfo della Cavalleria rusticana la cui regia nasce da un’idea di Andrea Camilleri che ha voluto raccontare una Sicilia delle origini sia nei costumi sia nelle architetture e negli arredi urbani. Nulla è fuori posto in questo melodramma. Un incanto che ha ripagato della sofferenza dei cinquanta minuti precedenti. La soprano Giovanna Casolla, peraltro splendida interprete, che il pubblico ha appena apprezzato nel ruolo di Turandot, è qui perfettamente a suo agio come Santuzza. La sua voce forte, portentosa, limpida, con una ricchezza di armonici davvero sorprendente ha smosso qualcosa dentro e in primis ha permesso a chi ascoltava di sciogliere la rigidezza che ancora aleggiava nell’aria e lasciarsi andare in un applauso sentito, vero ed emozionante.

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Teatro Carlo Felice
Che fine ha fatto la piccola Irene/ Cavalleria Rusticana
Autore: Marco Betta, libretto di Rocco Mortelliti/Pietro Mascagni, libretto di Targioni-Tozzetti e Menasci
Regia di Rocco Martelliti/Andrea Camilleri
Direttore: Dario Lucantoni
Scene: Italo Grassi
Costumi: Carmela Lacerenza
Con: CHE FINE HA FATTO LA PICCOLA IRENE? Cecè Collura: Danilo Formaggia (18, 23, 27, 31 maggio); Manuel Pierattelli (26, 29 maggio). Comandante: Fabrizio Beggi. Scipio Premuda: Naoyuki Okada. Signora Laura Spoto: Maria Dragoni (18, 23, 27, 31 maggio);Sara Cappellini Maggiore (26, 29 maggio). Giorgia: Paola Ghigo. Inserviente: Federica Granata. Signor Duclos: Boris Vecchio. Mimo: Adriana Mortelliti.
CAVALLERIA RUSTICANA Santuzza: Giovanna Casolla (18, 23, 27, 31 maggio); Monica delli Carri (26, 29 maggio). Turiddu: Marcello Giordani (18, 23 maggio); Rubens Pelizzari (26, 27, 29, 31 maggio). Alfio: Alberto Mastromarino (18, 23, 27, 31 maggio); Ivan Inverardi (26, 29 maggio). Lola: Claudia Marchi (18, 23 maggio); Silvia Regazzo (26, 27, 29, 31 maggio). Mamma Lucia: Maria José Trullu (18, 23, 27, 31 maggio); Kamelia Kader (26, 29 maggio). Mimo: Adriana Mortelliti.
Dal 18 maggio al 31 maggio 2012